Ictus

Dal Latino (o latinorum?) “colpo, battuta“.

Di colpo, una domenica di dicembre – l’11, per la precisione cronachistica – una battuta e improvvisamente tutto con lentezza si confonde, si spegne, si usura; tranne, sembra un motto di spirito, l’area del linguaggio che resta integra, intatta, intoccabile. Per fortuna, caso, o volontà; dell’imponderabile.

Una sorta di viaggio ingarbugliato, un lungo tragitto onirico, accompagnato da folletti birboni con la supervisione di Titania e Oberon, dentro la propria vita, dentro le proprie emozioni, dentro il proprio mondo mistico, mentre il corpo – fragile, inanimato – permane abbandonato all’inazione, all’assenza quasi totale di movimento, in balia della volontà altrui, dell’altrui migliore volontà. Forse, auspicabilmente.

Sarebbe quasi una sosta desiderabile, una sorta di tregua dall’ossessione degli impegni e dei guai quotidiani, se nella maggior parte dei casi, non implicasse, invece di una pura e semplice finestra terapeutica, un vero e terribile infarto delle capacità – le più varie – con l’ipertensione arteriosa quale prima e più importante causa di rischio. Anche vitale.

Non dimenticare mai le conseguenze del mancato trattamento farmaceutico anti ipertensivo; sarà un pessimo giorno quando l’uomo perderà fiducia nell’uomo.

Cadi come corpo morto cade, vittima dell’ictus e non sai perché. La Tua compagna ti parla, il suo medico di famiglia – intervenuto subito, con tempestività da record – cerca di stabilire una connessione logica con te, ma tu, rispondendo a tono (perlomeno, con un certo tono) non comprendi perché si stiano agitando per la tua salute, per il tuo bene supremo, addirittura per la tua sussistenza su questa piccola, fangosa Terra.

Ti sembra di essere finito in un quadro del Maestro Vermeer, ma non sai quale; uno dei Suoi, uno di quelli, tanto dalla Recherche proustiana in poi, sono tutti autentici capolavori d’arte riconosciuti. L’Artista, scomparso a soli 43 anni, non ne lasciò molti, solo una trentina riconducibili a lui ufficialmente. Il pittore provinciale – visse sempre a Delft, non cercò mai la fama che potevano garantirgli L’Aia, Utrecht o addirittura Amsterdam – si dedicò sempre agli stessi stringati soggetti, apparentemente nelle medesime occupazioni, apparentemente nelle identiche ambientazioni.

Ecco, al netto delle differenze sessuali, io sono la Donna in azzurro che legge una lettera, una donna borghese imperturbabile che non consente al caos della vita di disturbare, anche in modo minimo, il momento; perché il vero segreto di Vermeer, come scrive la saggia e colta Melania Mazzucco, “é la capacità unica di raffigurare il tempo, lo sospende in un istante banale, fino a rivestirlo di luce e silenzio; lo sottrae alla contingenza, lo astrae e lo dilata fino a celebrarne il segreto e trasformarlo nell’essenza stessa della vita“.

Io sono una qualsiasi opera del Maestro di Delft, io sono una battuta fulminante di Massimo Troisi, sono il verso più banale cantato dai due Lucio, Dalla e Battisti.

Io sono l’Aplothorax burchelli, il coleottero di Sant’Elena, simbolo esemplare del Giorno di Darwin; scomparso senza una ragione nel 1967.

Io sono l’ictus, ma anche tutto il suo contrario.