Copertina di Robinson, 20 maggio 2023

Giocare, sognare (con) Go

Pagina del riscatto, della rivincita, della vittoria: totale e definitiva.

Pagina del “lo dicevo, io“; mezzo secolo dopo – anno meno, anno più – siamo vintage, ma classici, un dato sempreverde che nessuno osa più contestare.

Da bambino non mi è mai capitato di immaginare nel traffico che la Prinz si trasformasse in un gigantesco robot, dotato di forza ed energia portentose, in grado di fare di me un demone o un dio, in grado di rendermi il padrone del Mondo. Al massimo, in una saponetta e per di più senza freni: la Prinz, ovvio.

Eppure, che ci crediate o meno, la mitologica Prinz, a suo sgraziato modo, assomigliava molto a Mazinger Z; il secondo calava dall’alto come un fulmine (buono) “quando udrai un fragor a mille decibel/ su dal ciel piomberà Mazinger“; la prima, la sentivi chilometri prima che arrivasse, specie dopo qualche anno di glorioso ed eroico servizio.

Fortuna che Go Nagai, sensei – maestro, vero maestro – del fumetto nipponico, appassionato di Dante Alighieri (dell’Inferno, in particolare) e di Osamu Tezuka, ‘il dio dei manga’, intrappolato nella sua utilitaria, in mezzo al caotico traffico indigeno, lentamente immaginò che all’auto crescessero delle gambe, per allontanarsi dalla calca, senza più difficoltà.

Fu la genesi di Mazinga Z (e della stirpe dei robottoni, grazie anche al merchandising, ma questa è un’altra storia), grazie anche alle opportune frequentazioni con Astroboy e con il meraviglioso, storico illustratore Gustave Dorè. Dimostrando plasticamente, per l’ennesima volta, l’importanza di potersi accostare a certi Autori, l’importanza di collezionare certe opportunità.

Fortuna – nostra, cioè degli appassionati sfegatati della letteratura disegnata – che Go (gioco con scacchiera di origine cinese, ma siamo liberi dalla geo politica) da bambino abbia optato per l’universo manga, nonostante la genitrice avversasse questo sogno in ogni modo (orfano di padre da piccolino); fortunato che sia coetaneo di mia madre, anche se non sono sicuro che il dato incida; o forse sì.

Kiyoshi, vero nome di Nagai, è – oltre ogni dubbio e considerazione – l’erede di Tezuka e l’autore contemporaneo più importante e influente dei fumetti del Sol Levante; le tematiche e soprattutto i personaggi, dai robot, ai demoni, ai ‘semplici umani’ sono moderni, nel senso di sempre attuali, in perenne bilico, in perenne lotta tra bene e male, tra vizio aberrante e virtù.

Potrei divagare e baloccarmi molto e con soddisfazione su Mao Dante e sulla CommediaDivina, cos’altro? – nagaiani, ma eviterò, per rispetto delle mie esigue lettrici e dei miei folli e (elettronici) lettori.

L’opzione migliore, l’unica:

continuare a giocare a Go, anzi, con Go; continuare a sperare, sognare che i ritrovati tecnologici ultra moderni servano a costruire la casa comune, la pace definitiva;

sognare che gruppi di adolescenti, ovunque sul Pianeta, siano – sempre per sempre – più maturi e più intelligenti degli adulti.

Tempio Puro della Terra

Gli unici indiani buoni non sono quelli morti – come diceva forse il sanguinario ‘generale’ Custer – ma quelli che cavalcano nelle praterie superstiti, che scalano le montagne inviolate, che dialogano con i Venti;

che soffiano impetuosi nei cieli.

Il realismo capitalista, massivamente e massimamente concreto egoista e gretto, è davvero finito con il covid? Davvero il nostro corpo, limitato concreto e desiderante, è la sola “tecnologia sociale” – Chiara Valerio dixit, dopo aver letto Dysphoria Mundi di Paul B. Preciado – che può scrivere una storia nuova del Mondo? Auspichiamo di .

Conoscete voi – come non lo conosco io, ignorante supremo – Salvatore Mannuzzu? Uomo sardo, colto saggio e gentile, magistrato, politico e, soprattutto, scrittore: parole precise e belle, parole su cui riflettere, con attenzione e lentezza, parole magiche che però non salvano da destini cinici e sgraziati. Sarebbe magnifico compulsare come lui, “con lingua sincopata da una punteggiatura jazzistica e insieme giuridica“.

Un sogno, a pupille spalancate e mente sempre sveglia viva osservante.

Se volete capire come funzionano i sentimenti, se volete sul serio modificare la realtà attorno a voi – in prima analisi, il Pianeta sul quale viviamo – osservate con attenzione un film nipponico a disegni animati, un capolavoro: La città incantata, di Miyazaki San. Se davvero volete cambiare tutto attorno a voi, scrivete un libro, “è come dirigere un film con un budget infinito“. Se non mi credete, confrontatevi con lo scrittore Joe Todd Stanton e finirete per inseguire una stella e per scoprire, ancora, la bellezza: che ci circonda e ci “assedia”, ovunque.

La fotografia è un’arte, ma non si tratta di immagini, se non in superficie; appena sotto, esistono le fondamenta. La fotografa Irene Alison grazie alle immagini che scattava alla figlia e a sé stessa, madre adottiva – sono le madri che erigono le figlie o viceversa? – ha percorso un lungo, faticoso viaggio di scoperta formazione rinascita. Crisi, fragilità e una nuova coscienza di sé sono diventate un libro, di immagini e parole: La madre attesa. Le foto di famiglia, rigorosamente senza cornice, rivelano molto più di quanto si creda: “le cose più care non ti abbandonano“.

Molte case di produzione cinematografica, al varo di un film o di una serie, ritengono giusto telefonare alle Sceneggiatrici, per ottenere uno sguardo femminile sul materiale: per fortuna, le Donne riagganciano immediatamente. Una sciocchezza imperdonabile, tutti siamo – più o meno – impastati di bene e male, di maschile e femminile.

Abbandoniamo, in fretta se possibile, quei luoghi dove il Male viene considerato una “risorsa, un’occasione non per redimersi, ma per realizzare affari“, come sostiene, a ragione, il regista Roberto Andò. Nato a Palermo, sa parlare in analisi e profondità, di località straordinarie, ma difficili: impossibili, da vivere.

Il progresso, come lo intendiamo noi nel 2023 post Covid, è un dato troppo grande da mandare in fallimento, ma un cannibale gigantesco che sta per ingoiare l’Umanità e la Terra; per questo Prometeo è l’archetipo dell’Eroe – anzi, degli eroi, pochi ma veri – “generoso verso i deboli, gli ultimi, gli avanzi; è l’Eroe contro uno sviluppo che ha finito per prosciugare sé stesso“. Lo dice con assoluta convinzione Leo Muscato, nel Prometeo incatenato di Eschilo nella traduzione di Roberto Vecchioni, che sottolinea l’importanza di condivisione dell’arte creativa e civilizzatrice. Per salvarci, ripartire, risanare il Pianeta.

E’ la legge della Grande Madre, “che tutto sia in pace nel suo territorio“; “la terra che ho sotto i piedi non l’ho mai venduta o ceduta, desideravo solo tirare su la mia famiglia in tranquillità“.

Questo diceva Toro Seduto, capo tribù del popolo Sioux Hunkpapa, mentre consegnava l’ultimo fucile della rivolta contro il potere;

questa, in fondo, la legge del Tempio Puro della Terra.

Risposte nel vento (sbagliate)

Pagina della vernice, quella arancione, che si può distruggere con l’acqua (preziosa).

Delebile, nel senso di soggetta ad azione, nel senso di “si può cancellare, facilmente“.

Eppure, per il nostro magnifico, avanzatissimo ordinamento giuridico – per la nostra ‘classe’ politica (?) – le e gli attivisti che con vernice arancione delebile imbrattano le mura di certi palazzi, o anche alcune opere d’arte, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla tragica crisi climatica, sono equiparabili a moderni ‘terroristi’.

Delle due, l’una (e non si tratta dell’ora del pranzo): o non capiscono, o, capendo perfino troppo bene, indicano dei capri espiatori per non pagare pegno, per non prendere decisioni impopolari; tertium non datur.

Come scrive il professor Tomaso Montanari su Altreconomia di maggio, “non sarà un caso che la classe dirigente occidentale ha un’età media altissima, mentre gli attivisti del clima sono ragazzi?“.

Che scherzi birboni, orchestra il caso; vi sembrano bagatelle di poco conto, se due miliardi di persone si mettono per forza in marcia per quel che resta del giorno e del pianeta, se Genova diventa come Marrakech, senza esserlo e senza adeguarsi? Se, senza preoccuparvi né troppo né minimamente, piombate nel 2050? Ammesso e non concesso che siate ancora vivi. In qualche modo.

Ci salverà una novella suor Plautilla Nelli, una novella Annella De Rosa – cos’è una rosa, anche con un altro nome? – o forse un’emula di Giulia Lama, magari una seguace di Artemisia Gentileschi. Chi se non una Donna, chi se non il femminino, nell’accezione più vasta e più completa? Chi se non coloro che sono destinate a custodire nel loro seno e a partorire il feto? Chi se non coloro che generano? Volendo, potendo.

Non chiedetemi dettagli sull’utilizzo del formidabile gerundio: se Adriano – Celentano, chi altri? – è il re degli ignoranti, io sono l’ultimo dei sudditi (non ho scritto Sudeti).

Entro il fatidico 2050 sarà sempre il caso – necessità? anche il Fato si inchina alla Necessità – di cercare casa sempre più a nord. Trovando un certo affollamento, non disdegnerei nemmeno quello sud, naturalmente polo, Pinguini permettendo. Peccato che oltre al caldo sempre più opprimente, alla scarsità di acqua potabile e cibi, si aggiungerà allegramente la presenza del Plutonio 239. Avete capito bene, non il compagno di viaggio migliore: permane nell’ambiente circa 24.000 anni (poi non sparisce, si dimezza, se vi garba), né – come sottolinea Stefano Massini su Robinson di Le Repubblica – consola che la sua presenza sia stata rivelata dai carotaggi effettuati da un gruppo di scienziati (veri) italiani. Sempre grazie alle super potenze e a chi vorrebbe dipendere energeticamente dall’atomo: maneggiare con cura!

Si potrebbe divagare, affrontando questioni calcistiche, ma sarebbe deleterio infarcire di stoltezze la nostra vita, ragionando su piccinerie (invasione del terreno di gioco dello Stadio Friuli al termine di Udinese – Napoli, da parte di migliaia di tifosi partenopei) cui dedichiamo già troppo tempo.

Sarebbe bello, anzi, utile, parlare di giustizia umana, ma forse pretendo troppo. Da me stesso, da voi.

Come sostiene Vinicio Capossela, cantautore e letterato, ci arrovelliamo tra Brecht e Ariosto: le parole sono uno strumento meraviglioso, ma per il primo possono tutto, mentre per il secondo ne abusiamo, ma non siamo in grado di incidere sulla realtà. Come accadde a lui, amministratore della Garfagnana.

Siamo come i liberisti: citiamo continuamente la libertà, a sproposito;

eppure, la vera libertà non può e non deve essere dissociata dalla responsabilità. In tempi avari, in cui tutti hanno ragione e spiegano – ululando – perché,

meglio sedersi dalla parte del torto.

Il secolo nomade

Pagina di Oltramare, Paul: illustre professore di sanscrito a Ginevra.

Ginevra, moglie di Re Artù – quello della spada Excalibur, di Mago Merlino e dei Cavalieri Neri in Britannia – o la città svizzera? Ci siamo capiti.

Del resto, nel V secolo circa, visse il più grande linguista nella Storia dell’umanità, l’indiano (dell’India!) Bhartrhari: sosteneva che ogni conoscenza, anche la più piccola, fosse inestricabilmente connessa con la parola. Ne è convinto anche il professore Raffaele Torella, uno dei più grandi indologi italiani, vivente.

Consapevoli (almeno si auspica) che tra studio delle civiltà e vitac’è sempre uno scarto e qualche sorpresa“; per fortuna nostra.

Meglio il buddhismo o lo shivaismo non duale, meglio l’indianità o la hinduità? Meglio, sempre, includere e comunque chiedete lumi al professore. Leggo pochi articoli giornalistici, capisco meno.

Il ritornismo è una malattia che affligge molti popoli, la ricerca spasmodica nello spazio – qualunque sia – di qualcosa che ormai si è persa nel tempo; la gente rischia di impazzire o di morire in questa folle, inutile corsa al ‘bene smarrito‘. Dalla morte, purtroppo, non si torna, ma se si può, ci si organizza per avvertire; lo garantiva sempre Nonna Erminia, proprio come il grande Amos Oz, per il quale l’unica, pragmatica soluzione per Israele e Palestina sarebbe la creazione di due stati, anche senza amore.

La sola – senza essere una sola – confederazione multietnica, entro certi limiti, che funziona è quella elvetica. Tutto il resto è utopia, impossibilità.

Ma. Ma dove non giungono gli uomini – anche colti e educati – arriva una Donna, informata e determinata, soprattutto estremamente intelligente e foriera di soluzioni pratiche. E’ il caso di Gaia Vince, giornalista britannica ambientale, scarpe comode e cervello sopraffino, che nel suo Il secolo nomade , analizza in modo ampio e completo la questione delle questioni: la crisi ambientale.

Nel 2030 la temperatura del Pianeta salirà di un grado e mezzo, nel 2050 un miliardo e mezzo di persone saranno costretta ad abbandonare la propria casa e migrare in luoghi migliori: i più fortunati compreranno casa in Alaska e Groenlandia. Garantisce Telmo Pievani che per La Lettura ha intervistato l’autrice, Vince. Le popolazioni di tutta la Terra avranno un unico grande dilemma: troppa acqua, o troppo poca. Per questo il secolo nomade ci pone già adesso delle sfide cui dobbiamo trovare soluzioni, in fretta e bene, tanto che perfino le guerre e gli interessi geopolitici sembrano quisquilie. I politici sono inadatti, con la loro competenza scientifica pari a zero e la loro immaginazione concentrata solo sul piccolo cabotaggio dell’oggi, mentre avremmo bisogno di guide visionarie globali che sappiano collaborare e parlare con i movimenti e i comitati che rappresentano i cittadini, tutti i cittadini.

Le migrazioni di massa saranno gigantesche, la disponibilità di cibo sarà razionata e i prodotti alimentari subiranno inevitabilmente trasformazioni grazie alle piante e agli insetti, le emissioni saranno drasticamente tagliate, l’energia sarà verde – davvero – o non sarà e per progettare un mondo ancora vivibile dovremo dispiegare, in modo intelligente e comunitario, tutte le tecnologie a nostra disposizione.

Nel secolo nomade, Gaia vincerà; solo con le parole, solo con la conoscenza:

di tutti, per tutti.

Liberiamoci, dalle feste (rovine metaforiche)

Pagina del: “Arriva qualcuno? Sia festa, sia sacro”.

O viceversa.

Pagina della Liberazione: da tutto, da tutti; soprattutto, dagli obblighi, dalle imposizioni, da chi non si rende conto di essere schiavo e non vuole festeggiare.

Sia festa, ma vera e grande: chi non vuole accogliere, essere accolto, essere sacro, lo faccia pure, ma in altro paese, su un altro pianeta. Se lo trova.

Bandiamo i banditi – scontato, troppo facile – bendiamo i bendati, non affliggiamo gli afflitti (e nemmeno: gli affitti, i fittavoli, i locatori, qualunque significato abbiano); liberiamo le energie migliori, i repressi.

Riflettiamo, sdraiati – adagiati – mollemente, pigramente sul talamo: oibò, che sarà mai? Il talamo, ovvio. Il letto ove si incontrano lascive volontà, o quella parte di cervello (averne!) che rende la memoria valore stabile, eterno finché dura, condiviso?

Fasi lunari e cambiamenti climatici, esiste un nesso scientifico? Se potessimo mitigare la stupidità, sarebbe un successo.

Si invecchia con velocità sorprendente, ci si rende conto che una vita non equivale allo stesso tempo per due individui distinti, però ci s’illude di poter smettere quando si vuole: o ci si prova, trastullandosi tra rovine metaforiche.

Per sperimentare su sé stessi la libertà, o almeno il senso della medesima, bisognerebbe pedalare, su due o su tre ruote, com’era all’inizio della straordinaria avventura; come gli scrittori, drammaturghi, gli artisti di fine 800, del diciannovesimo secolo. La bicicletta era bambina, nuova fiammante, non solo novità e moda, ma strumento per annullare le catene (imprigionanti!), vere o metaforiche. Arthur Conan Doyle, per citare un Sir famoso e conosciuto (si spera), pedalava molto prima e meglio di partorire l’infallibile Sherlock Holmes. Lo stesso Emilio Salgari, padre nobile squattrinato della patria, era un provetto ciclista – lo garantisce Claudio Gregori in Vagamondi, Scrittori in bicicletta (per i tipi di 66thand2nd) – e partecipava a tutte le gare tricolori molto prima di inventare il celebre, venerato isolotto malese di formidabili pirati. Molto prima di immaginare mari, battaglie, mondi asiatici – e non solo – più reali del reale.

Maurice Leblanc, papà di quel gentiluomo con il vizietto dei furti firmati Arsenio Lupin, era possessore e utilizzatore di un biciclo, si scarrozzava con frequenza e soddisfazione tra la Normandia e Parigi e dei suoi viaggi sull’insolito mezzo, scriveva sui giornali; con dovizia di particolari e felicità.

Perfino Samuel Beckett, scoprì la bicicletta e la elesse suo strumento – forse “assurdo” – quasi esclusivo per gli spostamenti;

del resto, in attesa di Godot, della Giustizia, della Libertà e della Liberazione:

meglio pedalare.

Bottiglie recinti confini

Segui le linee, immaginarie o vere.

Segui le linee, dentro te stesso. Di solito, si prolungano nel mondo fuori.

Segui la musica, reale o quella che senti, prepotente, nella tua anima: non sbaglierai.

Cerca il sentiero che ti somiglia, cerca il nome che avevi in origine, questo è il segreto dell’inquietudine, di coloro che non riescono a mettere radici in un posto, fosse anche per qualche settimana o mese.

Ti sembra di essere rigido, di non essere più in grado di leggere le cartine e le guide; gettale via, tanto, prima o poi, la musica e le strade finiscono e rimani solo tu, con te stesso e con l’ansia di proseguire il viaggio.

Se non confidi in me – a ragione – credi almeno a Anna Maria: Ortese; anche perché, tu non te ne sei accorto, ma il mare non bagna Napoli.

Evita giochi da tavolo e bandiere, entra in the house of the Rising Sun e godi liberamente di quello che riuscirai a vedere, di quello che toccherai, poi esci senza rimpianti e continua la ricerca.

Non sempre le brutture della vita costringono a ripiegarsi su se stessi, anzi: spesso accade il contrario e ci si rifugia così lontano da non tornare mai più, da sopprimere quello che rimane, poco o tanto che sia, delle nostre vestigia mortali.

Se puoi, viaggia senza sovrastrutture, lo scrive anche Italo Calvino; sii non superficiale, ma leggero: plana sulle cose dall’alto, osservale interamente, non avere macigni sul cuore. Sarai più agile e scattante quando tornerai in cammino, dopo avere imparato un altro pezzo di vita. Del resto, come dice Kundera, la bellezza dell’essere, risiede spesso nella sua insostenibile leggerezza.

La leggerezza di vivere non è solo un metodo, una filosofia, ma una vera arte: non strumento da poeti e artisti, ma l’armonia nello dispiegare con cura ogni attività umana, per raggiungere equilibrio, serenità, benessere. O almeno: tentare, sempre.

Proteggi la Memoria, tecnologia e velocità – sostiene, a ragione, Shilpa Gupta, artista di Mumbai – rischiano pericolosamente di eliderla, cancellarla, distruggerla.

Non salverai le Parole, il tesoro più prezioso che ci è stato affidato, rinchiudendole nelle bottiglie; quelle che magari usi per lanciare al Mondo il tuo s.o.s. Gli Artisti sanno collocarsi a metà tra logica e amore, sanno creare recinti ove collocare le cose importanti, coltivando alacremente la speranza, nell’attesa che gli altri intuiscano e vogliano fare lo stesso. Del resto, Arte significa sfidare le convenzioni banali, le solite aspettative.

Affidati a follia e perseveranza, fidati di loro, ti aiuteranno quando sarà necessario, ti salveranno dalla banalità che è un peccato capitale, più della stessa cattiveria.

Il potere, (o i vari poteri), crede di controllare i confini e su di essi proietta se stesso, eppure esistono luoghi ‘invisibili’ che sfuggono al controllo, spazi di disperazione dove le persone magari spariscono, ma edificano la Storia: questo ci racconta quanto gli Umani siano resistenti e anche persistenti, nonostante i dolori, gli stenti.

Scrivi un diario della tua vita, meglio: un libro, senza fine. I libri sono strumenti formidabili, rivelano dell’essere umano tutto quello che resterebbe taciuto: travalicano i confini, culturali e fisici, sono il seme più rigoglioso a nostra disposizione per diffondere conoscenza.

Conosci te stesso: si conferma l’impresa più difficile,

la più alta.

dal libro di Bila Copellini

Anime nomadi

Pagina dell’Altrove, pagina della Primavera che intanto tarda ad arrivare.

Ci si dibatte sempre, ci si agita, si anela continuamente un altrove, perché la situazione presente scontenta, lo status quo è la stasi (rammenta qualcosa anche a voi?), l’immobilità, la morte civile e anche laica. Per chi crede, a tutti e a tutto.

Pagina di coloro che sono sempre in cammino, di quelli che, magari, sbagliano le mete – momentanee – ma non falliscono mai la direzione.

Venti, Rosa dei Venti: hanno bisogno di una direzione chiara – le correnti d’aria e gli umani – incontrovertibile; un luogo forse minuscolo o un incontro, meglio con persone ‘piccole’, umili, semplici. In America Latina, in Asia o comunque al Sud. Sempre al Sud.

Sì, viaggiare; perché la vita è un viaggio interminabile, anche rimanendo nella stessa stanza, anche volando, solo con la fantasia, perché gli occhi possano abbracciare tutto il Mondo. C’è chi naviga in lungo e in largo per i 7 mari, senza muoversi mai dallo stesso porto, eppure quell’approdo, insignificante, possiede tutte le caratteristiche più belle dei più nodali scali del Pianeta.

Dio è morto, anche noi non ci sentiamo troppo bene, l’importante è che chi di dovere, sappia comprendere e non censuri; Radio Vaticana a volte vede oltre, quello che i benpensanti non vedono, non vogliono vedere, non ammettono, nemmeno e soprattutto se si tratta di evidenze: universali.

Dio non esiste e provate a trovare voi un idraulico disponibile durante la fine della settimana: solo una delle situazioni è vera al 100%, scegliete voi quella giusta, poi, eventualmente, discutetene con il vicino, quello identico a Woody Allen.

Viaggiare d’estate in costiera romagnola e credere di essere in California (esiste differenza?), incontrare molte persone, le più varie, rimanere colpiti e fermarsi a parlare con un giovane e barbuto nomade di Novellara, terra di contadini, poeti, artisti. Scoprire piano piano, parola dopo parola, passo di seguito al passo, le comuni passioni per il disegno e per gli alberi, possenti e protettivi. Intuire dopo ogni movenza, accurata e sicura, un’estensione vocale particolare e prodigiosa, da autentico mattatore delle scene e dei palchi; padrone dei palchi, senza mai essere padrone delle vite altrui: una benedizione del Cielo.

Quel 13 giugno 1963, Riccione assomigliava davvero tanto a Las Vegas – senza essere California! – i giovani inseguivano, come fanno i ragazzi di tutto il globo, l’ennesimo altrove (che mai deve essere raggiunto, altrimenti è un imbroglio) e nella balera sulla spiaggia nasceva inconsapevolmente una leggenda: del resto, tra la Via Emilia e il West, queste cose sono rare, non certo impossibili. La sottile differenza tra Emilia e Romagna stabilitela voi, se ne siete capaci e non temete confronti.

Le risposte, le soluzioni possono essere semplici, mai facili; rispecchiano la realtà: insieme infinito di complessità. In fondo, è quello che inseguiamo sempre: infinite possibilità per riuscire a essere persone finite, anzi, risolte; ma con la data di scadenza.

Anime nomadi sempre, anime vagabonde mai: non saprebbero dove andare. Un nomade erra, per definizione: non pretende dimora stabile, sbaglia spesso, indovina – sempre – la direzione.

Come Augusto, Beppe, Bila, Dante, Danilo e i circa 30 nomadi musicisti.

Importante, fondamentale: percorrere continuamente sentieri e strade, stringere nuove mani, restare con curiosità in cammino; anche senza palco, anche senza porto:

anche da fermo, per sfiorare qualcosa che c’è, senza raggiungerla mai.

Disperato erotico tramp

The oil machine (Mandrake o Goldrake?)

Pagina di Sir Mandrake, o, se ne avete necessità, Mandrache (Mandrake, alla romana!);

cioè colui che è in grado di organizzare una bella, buona, soprattutto efficace: mandrakata!

In questo terzo millennio ci avevano preannunciato trionfalmente la sparizione perenne di: fame (e sete), povertà, ingiustizie, virus. Come è andata a finire, lo sappiamo tutti, anche troppo bene, perfino quelli che per fedeltà a una ideologia – magara! direbbe sor Carletto Mazzone – o a una parte di qualcosa, non lo ammetterebbero mai.

Citare in dettaglio nomi, cognomi, circostanze esatte, sarebbe inopportuno e inelegante; sono le stesse persone, ad esempio, affrante dalla crisi climatica irreversibile – lavorando alacremente per le multinazionali globali – che in modo disinvolto entrano, partecipano, influenzano, decidono la nostra sorte nei frequenti summit internazionali che dovrebbero discutere e agire per salvare – tentare di – il nostro Pianeta.

Considerati i danni e in particolare la beffa, mi rivolgerei a Mandrake: se non il potentissimo mago a stelle e strisce – almeno… – opterei per il protagonista del fumetto erotico italiano (molto in voga, adesso) Goldrake, nelle edicole più malfamate, dal 1966 al 1980. Ispirato alle incredibili avventure dell’agente segreto di Sua Maestà, James Bond; nel fisico, molto somigliante a Jean Paul Belmondo: lui sì, saprebbe come trarci d’impiccio, impaccio o, perlomeno, baloccarci; assai.

Riflettiamo per qualche istante: viviamo immersi nel petrolio e suoi derivati al – se ci dice bene – 95%, tra plastiche e letali micro plastiche. Anche coloro che predicano il bio e il naturalismo, non riescono a campare indipendenti dal petra oleum. Eppure, lo abbiamo ‘scoperto’ solo nel 1850, siamo suoi schiavi dal 1900 in poi; l’Umanità si è giostrata benino, senza, per secoli e secoli, ma da un secolo e mezzo non riesce – soprattutto psicologicamente – ad affrancarsi da questa sostanza nata sotto il mare, protetta dalle rocce, formata in milioni di anni e riversata velocemente in atmosfera in questo ultimo scorcio di Storia. Un anziano e saggio scienziato ci avverte: quanto decideremo nei prossimi 5 anni, influenzerà la vita delle persone di tutto il mondo (speriamo) per il prossimo millennio. Basterebbe rammentare qualche cifra in libertà, senza arruolarsi per forza tra gli allarmisti: continuare a ballare sulla tolda del Titanic mentre affonda, significherebbe vedere verso il 2050 innalzarsi il livello del mare di circa 7,50 metri. Bangladesh e Vietnam, paesi che qualcuno fatica a individuare sulle carte geografiche, sarebbero sommersi, le risaie scomparirebbero. Cento milioni di esseri umani – gente come noi, per dirla tutta – più probabilmente, 200 o addirittura 300 milioni di persone, vagherebbero per il globo in cerca di un posto dove stabilirsi, di lavoro, di cibo. Chiedetelo all’attivista e regista irlandese Emma Davie, chiedete se la crisi climatica è solo uno scherzetto di pessimo gusto (Halloween…) o se davvero rischiamo l’estinzione, dopo un’era di indicibili tormenti globali. Chiedetelo ai protagonisti del documentario The oil machine (presentato in anteprima nazionale al Pordenone Docs Fest di Cinemazero, Pordenone), forse non vi riveleranno la soluzione, ma – questo è sicuro – vi illumineranno sull’annoso dilemma.

Per la crisi climatica, mi affiderei a Mandrake (alla romana), a Goldrake – non il disperato erotico tramp italiano, ma il robot di Go Nagai – eviterei di lasciare il mio futuro (meglio: delle nuove, fresche generazioni) nelle flessuose mani del vero, elegante mago Usa:

scoprirei, amaramente, che anche gli illusionismi appresi in Tibet, lasciano tutto come prima.

In ogni caso, attenti a non scivolare.

Buona Primavera e Buona Pasqua: senza trucco, senza inganno!

Vento e ferrovie (Messico e nuvole)

Pagina delle ferrovie, statali e messicane.

La tristezza, le nuvole: certo, cosa altro sennò? Eppure… esistono ferrovie statali, in Messico? La domanda non è poi così pellegrina – meglio: peregrina? – se perfino Hitler si era convinto che la chiave segreta per vincere la seconda guerra mondiale (WW2, mai) si annidasse proprio lì. O almeno, ne è convinto Gian Marco Griffi, “scrittore del lunedì“, direttore del meraviglioso golf club di Fubine (Alessandria, non d’Egitto), piemontese schivo e amante di libri, capace di vergare ottocento e passa pagine, per spiegare l’ossessione tricolore del Fuhrer. Tricolore nel senso di stati uniti: del Messico.

Perché cominciare così? Con il Messico, i dubbi sulle sue ferrovie, un libro all’apparenza improbabile che rischia di vincere lo Strega (appoggiato dallo storico e autore Alessandro Barbero, Brick for stone) dopo essere stato letto solo da qualche decina di persone, tra amici e conoscenti?

Chiedo io: perché no? In fondo, la vera vita si rivela ponendosi le domande più assurde, sgangherate, inopportune.

Se le ferrovie statali messicane esistessero davvero, sarebbe cosa non solo buona, ma anche giusta, considerando l’estensione (14° al mondo) e le asperità di questa terra, meravigliosa e incantatrice.

Dunque, se esistono binari pubblici in Messico – tra l’altro, nonostante le incertezze e le oscillazioni controllate del mercato, 14° economia in classifica – non dovremmo più stupirci nemmeno di tutte le altre incongruenze del pianeta: prima delle altre, le guerre e la clamorosa distanza tra i pochissimi ricchissimi e i sempre in aumento esponenziale, poverissimi.

La perfezione è il nulla fagocitante, viviamo nella migliore realtà possibile oggi, qualcuno trova soluzioni geniali, nonché epocali, a problemi che ridurrebbero in ginocchio generazioni di super donne e uomini.

Dunque: sorridi, potrebbe andare peggio, potrebbe piovere…

Ah già, forse la pioggia, quella vera, non esiste più.

Viva il Messico, viva Zapata (Emiliano Brando)!

Best of

Capitalismo, Marx dove sei?

Capitalismo, neo liberismo, colonialismo. Pagina dello schiavismo.

Fu abolito, forse; in realtà, non è mai andato via: vive, lotta e, soprattutto, prospera in mezzo a noi. In fondo, il Capitale – a proposito: maiuscolo o minuscolo? Minuscolo, mai – si evolve, si trasforma al mutare dei tempi, è proteiforme, non scompare. Cambia volto, anzi, volti e quando credi sia finito, esso, beffardo, prima ti irride, poi ti schiaccia o ti riusa; secondo i suoi bisogni del momento.

I capitalisti, questi sconosciuti: sono sempre meno, sono sempre più cattivi. Poche persone detengono il potere, ossia bilanci che fanno impallidire le nazioni, anzi, le rendono vassalle. Fagocitano risorse naturali senza posa, mietono idee, ideologie, perfino religioni senza fermarsi, neppure un istante. Si inchinano, eseguono, ringraziano, senza fissare negli occhi. Le nazioni, ovvio.

I moderni capitalisti sono aridi: decidono come funziona l’economia mondiale, chi si arricchisce e per quanto tempo; decidono chi può curarsi, decidono chi e cosa mangia e beve; il pezzo potrebbe finire qui. Il prezzo lo stabiliscono essi, non si sfugge.

Rammentate Marx? No, non il cantautore statunitense, famosissimo negli anni ’80; Karl, il filosofo – più un centinaio di altre qualifiche, compreso il giornalista – di Treviri, cioè teutonico; colui che più e meglio (forse) di ogni altro collega sviscerò pregi e difetti del Capitale. Oggi cosa farebbe? Ovvio, sarebbe CEO di una company, una qualsiasi. Del resto, tocca campare, in qualche modo, meglio se nel lusso!

Eppure, nonostante sia troppo grande per fallire – troppo vorace? – esiste sempre un minuscolo ‘ma’, una rotellina, un trascurabile inciampo che può compromettere il meccanismo, in apparenza perfetto e indistruttibile.

Apoteosi o apocalisse? Apocalisse in senso di disastro finale o rivelazione? Se qualcuno è in grado di stabilirlo, parli, si faccia avanti – non necessariamente in quest’ordine – o scompaia, per sempre.

Lo sapevate che qualcun altro, talmente matto – totalMente: crederete, se non in me, in Gioachino Chiarini? – ha studiato così a fondo (in lungo e in largo, è il caso di scrivere) la Commedia dantesca, da riuscire a scoprire gli orari esatti degli avvenimenti, grazie ad alcuni illuminanti particolari? Dunque, forse, non la fase dittatoriale del proletariato (quasi tutta l’umanità?), ma volete che qualche genio non escogiti il modo per causare il collasso finale del capitalismo?

In fondo, l’apocalisse non è un fatto che deve incuterci timore – Adrien Candiard, domenicano, sostiene che il male c’è, perché noi facciamo il male – , ma una prospettiva: tutte le cose umane – le crisi economiche, le pandemie, gli spettri delle guerre nucleari, perfino la bestia onnivora chiamata capitalismo – nascono, evolvono, hanno, prima o poi, una conclusione: definitiva.

Se il capitalismo finirà in anticipo: meglio. Per i moltissimi, per tutti.

Nevvero, Carlo Enrico?

Spirito, aspetto (spero?)

Pagina dello spirito; o Spirito, se prediligete.

Bisogna meditare bene, con calma, con autentica ponderazione, perché si fa presto a scrivere lo spirito o uno spirito, purché sia, ma si dovrebbe essere precisi, accordarsi (non a orecchio) su quale invocare.

Da etimologia, ne esistono molti, di vari tipi e funzioni: non sembra affare semplice o di poco conto. Chiediamo l’aiuto dello spirito puro e semplice, o del più poetico spirto? Come vedete e immaginate da soli, la questione si complica, dall’esordio. Spirito come soffio d’aria per intendere altro? Spirito leggero e incorporeo, come l’Anima? Disposizione di animo (al maschile, forse più tosta)? Spirito di contraddizione? Magari, critico, nel senso di: puntiglioso, preciso, scientifico. O mamma, ci vorrebbe una fidanzata, magari della Parola.

Parte essenziale di un discorso e soprattutto di una legge; ma se preferiamo un po’ di leggerezza, se aneliamo un pizzico di disimpegno e allegria, spirito inteso come quota volatile derivante dalla distillazione del divino… vino; come alcool, non per lo sballo, ma per per il sano divertimento. In vino veritas, per i più colti (coltivati): ἐν οἴνῳ ἀλήϑεια, come affermava sempre Zenobio, calciatore ellenico del II secolo dopo Cristo.

Possiamo raccogliere l’estremo spirito, alla Latina: l’ultimo fiato che fuoriesce dalla bocca di un moribondo a noi particolarmente caro; oppure, rilucendo nelle masse indistinguibili, mostrare acutezza di spirito, umorismo, spiritualità, ossia: capacità di dialogare con naturalezza con la dimensione dove albergano le anime (o gli anime nipponici?).

Meglio l’accezione grammaticale o quella magica, anzi alchimistica? Meglio quello aspro e concreto o quello dolce e immaginifico?

Meglio avere sempre presenza di spirito: rapidità e sicurezza nelle decisioni, al cospetto delle più varie e inaspettate temperie della vita terrena; meglio spesso, anzi, sempre, essere ricchi, se non di beni materiali, almeno di spirito: battute, anche salaci, e allegria, non mancheranno mai.

Per non ingarbugliare di colpo e in modo repentino le cose – tutto e niente – lascerei sopita la distinzione, la definizione filosofica della materia, del ramo (d’oro?), della disciplina. Tanto, siamo sempre in tempo a complicare una matassa ordinata perfettamente.

Aspetta e spera, nello spirito. Chi visse sperando, morì … cantando, direbbe Nonna Erminia, o forse, con energia inusitata, si unirebbe al coro (non di prefiche). Di più: lo dirigerebbe.

Aspetto fisico, come scriverebbe Alessandro Bergonzoni;

ma vorrei davvero tanto, anzi, infinitamente, che arrivasse – ovunque – lo spirito.

Qualunque cosa significhi.

Hegel (o Kant? Chiedi a Popper)

Ritirarsi a pensare nel deserto californiano di Joshua Tree.

Per cinque anni. Come un piano sovietico, quinquennale. Per essere precisi.

Come un lungometraggio, di Wim Wenders.

Come la fenomenologia dello Spirito, del Supremo.

In silenzio assoluto, totale: per fare in modo che la temporalità vinca sulla spazialità, perché la musica trovi casa e trionfi sulle parole.

Rarefatte, vuote, inutili. Come pensava, forse, lo stesso Lucio Battisti.

Scoprire, infine, se sia vero o meno poco importa, che la sceneggiatura di Wenders fu ultimata solo grazie all’intervento salvifico e alla guida saggia e ispirata – Paris (Paris, Texas) è una città molto diversa da come appare nelle immagini – di … Kit Carson.

Lasciarsi andare (dove?), senza corporeità, senza vincoli dimensionali: vagare con la soggettività nella bolla in cui domina l’Arte, quella pura, senza necessità di complicate spiegazioni, senza l’inganno delle fragili parole.

Anima e musica fuse insieme, una sola realtà, inscindibile.

Nella musica, volare; o illudersi di riuscirci. Sulle note mai imparate, librarsi nell’aere, liberi dalla forza soggiogante della gravità, notare esseri viventi e asperità terrestri, a testa in giù. Finché esistono, finché mi va, finché dura (lex!) gioco io.

Scoprire all’improvviso una differenza semplice ma sostanziale, scoprirla grazie ad Aldo Moro: quella tra sintesi e banalizzazione. La prima elimina il superfluo, ma la seconda distrugge il necessario e quello – aggiungo per un eccesso di puntiglio – non si recupera più, è perduto: per sempre.

Alla Giustizia servirebbe pietas cristiana, forse umanità; la stessa che sorreggeva e ispirava l’anarchico Fabrizio De André, come scrive con convinzione l’avvocato penalista Raffaele Caruso.

La Verità, quella storica, richiede soprattutto assunzione di responsabilità, non solo divagazioni colte, divertimento intellettuale, intrattenimento di alto livello.

Come sostiene il filosofo Luca Antonio Coppo, nella Gazzetta filosofica on line, vorrei, sempre più spesso in ultima analisi, diventare, essere Musica:

non per imparare meglio qualcosa, non per sperimentare qualcosa, ma per vivere, tutto;

con sentimento.

Tossicomane (sete, di giustizia)

Viaggiatori.

Per diletto, curiosità, inguaribile irrequietezza. Gente che si sollazza nella parte fortunata del Pianeta.

Per necessità, semplicemente Vita. Gli altri da noi, i meschini.

Tutto qui, non ci sono altre ragioni: Vita.

Si potrebbe finire così. Senza necessità di dilungarsi in spiegazioni, dotti ragionamenti, cause. Eppure non basta, mai.

L’eccidio di Cutro non è una catastrofe, non solo: troppo comodo, troppo facile. Quel sangue, soprattutto dei Bambini, ricade sul mondo settentrionale occidentale. Per forma mentis, per i valori che si illude ispirino la propria idea di società; per i governanti, primi responsabili della strage, per ruolo, ma non in via esclusiva. Perché se è vero che i nostri dipendenti hanno causato il disastro (all’inizio, non intervenendo, poi trasformando un’operazione di Search and Rescue in una operazione di polizia, infine – davvero odioso e vomitevole – giocando con vite umane allo scaricabarile e all’invenzione della menzogna più credibile), è vero anche che, magari non un minuto dopo, ma il giorno successivo, quando ormai tutti i dettagli della vicenda erano sul tavolo, non abbiamo preteso le loro dimissioni irrevocabili e il loro immediato ritiro dalla politica.

Fine della storia.

Guardia costiera, Frontex, Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri, Ministero dell’interno, governo; nessuno è esente, nessuno tenti, mai più, di credersi fuori o intoccabile da tutto quanto riguarda la Vita delle Persone; oltre l’etnia, il censo, le opinioni. In testa, ribadiamolo, il Paese – o la nazione, come è in voga adesso – al completo.

Non esiste libertà di scelta, non esiste autodeterminazione, non esiste libertà di agire per il proprio paese natale (rispondo così a ‘figure istituzionali’, capaci solo di ammantarsi di parole e citazioni dotte casuali) se sei costretto a fuggire – costretto! pagando in contanti e sofferenze! – verso porzioni di Pianeta meno abiette. Potrei scrivere cento, mille, centomila frasi per illustrarlo ai benpensanti, perché milioni di persone cercano disperatamente di allontanarsi in fretta da casa propria, ma sarebbe inutile; chi vuole capire, s’informi. Le possibilità, noi occidentali, le abbiamo: numerose e variegate.

Talvolta, debite proporzioni e differenze considerate, mi sembra di essere come il protagonista del romanzo JunkyConfessioni di un tossicodipendente irredento, di William S. Burroughs, ripubblicato dai tipi di Adelphi, settanta anni dopo la prima apparizione negli Usa. Perché sono disperatamente, sempiternamente alla ricerca costante della Giustizia – o, almeno, di una giustizia che sia valida per ere, oltre gli uomini fallaci – assetato perennemente di principi etici ‘giusti’, soprattutto ‘buoni’, in grado di sostenere le società umane, il loro disfacimento con lo scorrere (anche virtuale, se vogliamo) della dimensione che, per praticità, chiamiamo Tempo.

Un amico del protagonista, dopo averlo visto iniettarsi una dose, gli chiede repentinamente: “Piaciuto?” (a proposito, la nuova traduzione è affidata a Andrew Tanzi, ndr),

Se Dio ha creato qualcosa di meglio, se l’è tenuto per sé“.

In fondo, mi piacerebbe infinitamente poter dire lo stesso, a proposito della Giustizia;

questa volta con l’inziale maiuscola, senza infingimenti di sorta.

Stella Rossa

Chiedi chi era Rino Della Negra, chiedilo a una ragazza italiana di 15 anni d’età.

Chiedilo anche a quasi tutti gli italiani adulti, fossero perfino Friulani. Domandalo a tutti i ragazzi tricolore, sarà quanto meno un impegno inutile, grande fatica sprecata.

Chiedi se hanno presente la foto, l’immagine, il marchio (?) che identifica questo ragazzo – già uomo, vero uomo – , questo fortissimo calciatore della Stella Rossa. La risposta migliore, non per colpa loro, nella più adeguata delle ipotesi, sarà “no”, oppure “mi sfugge”, “non rammento”.

Un giovane rappresentante del Friuli, un autentico migrante economico in terra di Francia, presso i nostri beneamati, detestati “cugini” d’Oltralpe (ammesso voglia significare qualcosa).

Indaga con oculatezza se sanno dell’esistenza di una tribuna intitolata a ‘Rino Della Negra’, se conoscono uno striscione con la Stella Rossa che inneggia alla ‘Bauer Resistance‘. Chiedi se identificano l’immagine di un giovane uomo in maniche di camicia che osserva con attenzione, con il suo sguardo fiero e colmo di serenità, soprattutto contadini e operai, provenienti da ogni dove: armeni, polacchi, ungheresi, spagnoli e italiani. Probabilmente, molto probabilmente, no.

No, certo. In fondo, perché?

Ai nostri tristi, o semplicemente, piccoli giorni, sarebbe un eroe nazional popolare (non lo sono tutti, quelli famosi per 15 secondi nei tg?), una leggenda continentale, un esempio totale, mondiale.

Lui, Rino Dalla Negra, 21 anni, coraggioso e indomito, sfugge alla nomea e alla celebrità, ma per fortuna non in Francia, non dove sanno onorare un uomo giusto, estraneo agli intrighi, contrario ai compromessi.

Nato a Vimy nel 1923, in territorio gallico, originario di Segnacco di Tarcento dalla famiglia Rizieri; famiglia che come molte altre, all’indomani del primo conflitto mondiale, cerca di evitare l’inedia e la povertà più nera, grazie al padre che decide di abbandonare l’Italia, per approdare nella Francia settentrionale; lavoro garantito in una fabbrica di mattoni. Dopo tre anni, con pochi bagagli e molte speranze nell’avvenire, trasferimento a Argenteuil e nuovo impiego presso la fabbrica di radiatori per auto, Chausson. Rino cresce bene e forte, a soli 14 anni – come usa a quel tempo – abbandona la scuola e divenuto operaio, lavora subito assieme al papà. Da lontano fisicamente, ma vicino con il cuore, segue trepidante l’occupazione fascista (del paese e delle istituzioni) e rifiuta in modo netto la convocazione da parte del Servizio di lavoro obbligatorio, per andare a faticare nella e per la Germania, alleata e nazista. Aderisce presto, invece, e si distingue per azioni ardite, al gruppo definito con disprezzo dai nazisti ‘Mano d’opera immigrata‘ dedicato a Manouchian (Missak), operaio giornalista e poeta, salvatosi fortunosamente dal genocidio del popolo armeno. Nel frattempo, si dedica al football, e viene ingaggiato dal club transalpino di serie A, Red Star; squadra della capitale Parigi che potrebbe essere oggi accostata (come scrive opportunamente sul Corriere della Sera, Stefano Montefiori, grazie a Danilo Vezzio, presidente del Fogolar furlan di Lione) alla Juventus o all’Internazionale.

Colpito alla schiena da una pallottola nazista, durante un agguato con 6 compagni in bicicletta contro un portavalori teutonico, viene ricoverato in ospedale, poi imprigionato, torturato e condannato a morte dalle SS; nel periodo di reclusione, scrive al fratello per esortarlo a salutare i compagni della Red Star e per celebrare la vita in suo onore.

Rino Dalla Negra muore a 21 (ventuno) anni, per mano criminale dei nazisti, assieme ai 22 compagni del Gruppo Manouchian, il 21 febbraio del 1944. Odo in lontananza una musica dolce che continua a raccontarne le gesta, di operaio, partigiano e calciatore; una melodia sublime, magari inventata da Remo Anzovino che, tramite il suo pianoforte, lo rende immortale.

Come in Francia, come per tutti i Friulani con memoria, nel mondo.

P.S. Se volete saperne di più, molto e giustamente di più, su Rino Dalla Negra, cercate il Suo nome sul web, oppure consultate Danilo Vezzio, presidente del Fogolar furlan di Lione.

Ictus

Dal Latino (o latinorum?) “colpo, battuta“.

Di colpo, una domenica di dicembre – l’11, per la precisione cronachistica – una battuta e improvvisamente tutto con lentezza si confonde, si spegne, si usura; tranne, sembra un motto di spirito, l’area del linguaggio che resta integra, intatta, intoccabile. Per fortuna, caso, o volontà; dell’imponderabile.

Una sorta di viaggio ingarbugliato, un lungo tragitto onirico, accompagnato da folletti birboni con la supervisione di Titania e Oberon, dentro la propria vita, dentro le proprie emozioni, dentro il proprio mondo mistico, mentre il corpo – fragile, inanimato – permane abbandonato all’inazione, all’assenza quasi totale di movimento, in balia della volontà altrui, dell’altrui migliore volontà. Forse, auspicabilmente.

Sarebbe quasi una sosta desiderabile, una sorta di tregua dall’ossessione degli impegni e dei guai quotidiani, se nella maggior parte dei casi, non implicasse, invece di una pura e semplice finestra terapeutica, un vero e terribile infarto delle capacità – le più varie – con l’ipertensione arteriosa quale prima e più importante causa di rischio. Anche vitale.

Non dimenticare mai le conseguenze del mancato trattamento farmaceutico anti ipertensivo; sarà un pessimo giorno quando l’uomo perderà fiducia nell’uomo.

Cadi come corpo morto cade, vittima dell’ictus e non sai perché. La Tua compagna ti parla, il suo medico di famiglia – intervenuto subito, con tempestività da record – cerca di stabilire una connessione logica con te, ma tu, rispondendo a tono (perlomeno, con un certo tono) non comprendi perché si stiano agitando per la tua salute, per il tuo bene supremo, addirittura per la tua sussistenza su questa piccola, fangosa Terra.

Ti sembra di essere finito in un quadro del Maestro Vermeer, ma non sai quale; uno dei Suoi, uno di quelli, tanto dalla Recherche proustiana in poi, sono tutti autentici capolavori d’arte riconosciuti. L’Artista, scomparso a soli 43 anni, non ne lasciò molti, solo una trentina riconducibili a lui ufficialmente. Il pittore provinciale – visse sempre a Delft, non cercò mai la fama che potevano garantirgli L’Aia, Utrecht o addirittura Amsterdam – si dedicò sempre agli stessi stringati soggetti, apparentemente nelle medesime occupazioni, apparentemente nelle identiche ambientazioni.

Ecco, al netto delle differenze sessuali, io sono la Donna in azzurro che legge una lettera, una donna borghese imperturbabile che non consente al caos della vita di disturbare, anche in modo minimo, il momento; perché il vero segreto di Vermeer, come scrive la saggia e colta Melania Mazzucco, “é la capacità unica di raffigurare il tempo, lo sospende in un istante banale, fino a rivestirlo di luce e silenzio; lo sottrae alla contingenza, lo astrae e lo dilata fino a celebrarne il segreto e trasformarlo nell’essenza stessa della vita“.

Io sono una qualsiasi opera del Maestro di Delft, io sono una battuta fulminante di Massimo Troisi, sono il verso più banale cantato dai due Lucio, Dalla e Battisti.

Io sono l’Aplothorax burchelli, il coleottero di Sant’Elena, simbolo esemplare del Giorno di Darwin; scomparso senza una ragione nel 1967.

Io sono l’ictus, ma anche tutto il suo contrario.

Nuvole Fenice

Quando nel cielo d’inverno, terso e lucido, compaiono nuvole a forma d’ala di fenice, forse è giunto il momento fatale di risorgere o almeno ravvivare le braci sotto la cenere.

Le tue mani sopra di me, mi convinci a risorgere – hai presente Nosferatu di Wilhelm Murnau, con la sinistra apparizione/ascensione verticale obliqua? – un ottimo auspicio, da cantare in coro, anche se siamo soli, tu con io e viceversa: soprattutto se il diretto interessato è già auto convinto, soprattutto se da lustri, oggi confortato dalla scienza ufficiale: il corpo anche dopo la morte continua a vivere per almeno un anno; l’ingenuo individuo – nell’accezione e con l’accento migliore – cogita che come epitaffio gradirebbe una dichiarazione d’intenti: non escludo il ritorno.

Se dopo ci sarà qualcosa, vi avvertirò; Nonna Erminia lo diceva sempre ridendo, propensa a restare qui, in questo lato del Mondo, a lungo, senza porre limiti alla provvidenza, né alla Provvidenza. Poi, un giorno, senza dire perché, né spiegando il come, è partita. Non ci ha ancora ragguagliato sui dettagli dell’oltre Terra, però si manifesta spesso e volentieri, con scherzi birboni che recano la sua inconfondibile firma ironica, talvolta beffarda.

Incontrare altri occhi, ma con la mascherina: no museruola, mascherina nera, elegante, da dandy d’altri tempi, 1940 o giù di là. Abito blu di foggia preziosa, cravatta rossa e cappello fedora – potrebbe sembrare il titolo d’una tragedia greca, non lo è, credo – in tono, puro Spirito di Will Eisner, molto concreto, per replicare a tono – tono su tono, talvolta anche tuono – alla criminalità, soprattutto alle ingiustizie dei tempi.

Sant’Ambrogio non credo sia l’omonimo fabbricante nonché dispensatore di quegli (possiamo dirlo?) orridi souvenir da bancarella turistica: ambrogini placcati oro con annessa Madunina del duomo, magari nei pressi della Scala. Teutonico (gallo!) di nascita, meneghino d’adozione ed elezione, pare fosse umile, saggio, intransigente; abile oratore, convertì Agostino, mise al suo posto – non solo in senso figurato, ma letterale anzi fisico – l’imperatore Teodosio. Amatissimo non solo dai cristiani convinti, ma dagli stessi eretici, amatissimo dalle genti di estrazione popolare. Nonostante tutto questo, qualche malalingua si ostinava ad insinuare: facciamogli il test della cadrega, tel chi l’è un terun; non solo in qualche remota mescita con cucina nella nebbiosa Brianza.

Le nuvole Fenice a quale velocità si spostano nel cielo? Si fa presto a dire velocità della luce, ma non siamo tutti Nembo Kids o Nembo Boys. Né di solito possiamo estrarre dalla tasca l’Enterprise, o qualche altra nave spaziale, magari una di quelle immaginate da Salgari – sì, l’Emilio fu anche autore (fautore) fantascientifico! – nel suo Le meraviglie del Duemila (scritto nel 1907, ambientato nel 2003). Alla velocità della luce volerai se e solo se prima saprai immaginarla, saprai trovarla, fabbricherai le parole per raccontarla, quindi grazie infinite all’astronomo Ole Christensen Romer che il 22 novembre del 1676 al cospetto dell’Accademia delle Scienze della corte reale di Parigi illustrò in modo incontrovertibile il metodo definitivo per imprigionarla dentro un calcolo, matematico. Senza di lui, addio fantascienza, addio eroi più o meno super, addio hi tech astronautico.

L’Uomo che aspirava a perlustrare il mondo da capitano di vascello e per colmo di sventure e paradossi non andò mai oltre Verona e Torino, inventò con la fantasia mondi meravigliosi, passati e futuri; preconizzò con la preveggenza dei veri geni ‘un Eden tecnologico, i cui comfort non solo non hanno risolto, ma anzi hanno incrementato solitudine e alienazione‘ (Stefano Massini su Robinson di La Repubblica).

Meglio, molto meglio anelare, essere una nuvola a forma di ala bianca di Fenice: non si raggiungerà mai la velocità della luce, non si sbarcherà su pianeti alieni, ma si potrà volare liberi e soprattutto in armonia nello stormo.

TentennaMenti, Tintinnii

Un tintinnio attutito dalle nebbie, un’eco lontana, un clangore di catenacci arrugginiti.

C’è sempre qualche re che tentenna, indeciso a tutto tranne che al proprio tornaconto, mentre lungo le rive del fiume della vita i popoli si battono, lottano, muoiono.

Lungo le rive della Senna, non solo parigina, anche quella lodigiana, guardare meglio – o Guardamiglio – scrutare l’orizzonte, auspicando in una fioca luce che indichi o suggerisca la possibilità di un sentiero nuovo.

A piedi, o con immaginazione fertile e volante se non volatile, da San Colombano al Lambro a Piacenza, per emulare quel gaga ante litteram che elegante e profumato si avventurava sulla strada da Lodi a Milano, per occhieggiare la fatale e leggendaria bella Gigogin, avvolta in morbidi sbarazzini abiti tricolori (in caso d’insuccesso, annegare nel gin di scarsa qualità, erogato in taverne malfamate).

Inerpicarsi al tramonto sulla collina che ospita il castello, precipitando di colpo – come Alice nella tana dei conigli magici (o cadde nel cilindro di Mandrake?) – in una dimensione alternativa, tra Camelot e la Terra di Mezzo; giungere affannati alla cinta muraria e ad una varco arcuato, sigillato da un cancello, sorvegliato da guardiani incorruttibili e invisibili. Al di là delle siepi, degli alberi, dei cancelli c’è sempre un universo misterioso, potenzialmente colmo di pericoli, perché in realtà quel portale ci separa dai nostri lati oscuri, da tutti i nostri limiti. Al nostro buon libero arbitrio, la scelta, più o meno consapevole, di varcare, andare oltre, scoprire l’indicibile.

Sostare per trovare riposo e rifocillarsi alla Locanda Hermes: non autoreferenzialità, né pubblicità occulta, semplice informazione di servizio, pubblicità progresso divina. A Cremona e/o dintorni, terra densa di misteri e meraviglie.

Perdersi nel Bosco delle possibili fatalità o delle possibilità fatali, dopo aver ripreso il cammino – auspicabilmente, il proprio – lasciarsi irretire catturare guidare da una melodia sinfonica (Forever Young, ancora e sempre) suonata dalle fronde degli Alberi, da folletti e gnomi birboni, dagli Alphaville, però invecchiati, proprio come noi. Incappare in una sala cinematografica d’essai, magari Azzurro Scipioni, e assistere , nemmeno si trattasse di un sogno bizzarro, ad Alphaville di Godard, per provare sulla pelle l’effetto che fa una vera dittatura tecnocratica, o a una nottata dedicata a Ingmar Bergman e, male non fa mai, a Francois Truffaut.

Camminare ancora, arrivare sulle amate sponde del Sand Creek che dovrebbe essere in Colorado, ma come insegna Paolo Nespoli, se viaggi nello spazio e nel tempo, assisti in pochi minuti ad albe e tramonti senza soluzione di continuità, mentre il Pianeta gira incessantemente su se stesso, tu giri attorno a lui e anche la capa, in assenza di gravità, gira parecchio: ritrovarsi a deambulare sulle mani è un attimo. Raggiungere Marte si può, ma tra altri 15 anni, mentre decidiamo se sia più conveniente tentare di atterrare sul Rosso Pianeta o su qualche improbabile Super Terra, a centinaia, migliaia di anni luce da noi, curiamo le margherite che ormai sbocciano in inverno: in fondo, il sinistro cigolio del cosmovascello non è un problema, se emuliamo il capitano del Titanic, non è un problema l’eventuale accelerazione a 2 o anche 3G, mentre progettiamo un fattapposta di freno a mano che ci consenta di parcheggiare senza vomitare dentatura e scheletro, senza rischiare di annichilire la nostra debole carne. Fluttuare nell’Universo comporta perdita definitiva di calcio, meglio allenarsi con discipline sportive alternative.

Affanni inutili: la fine è nota ed sempre la stessa, senza girella, senza cornetto, apotropaico o da forno.

Sulla torre più alta, nella stanza segreta, nuovi, giovani amanti squarciano le tenebre, avvampando di passione nell’alcova lasciva;

la storia, le storie si perderanno nel sussurro del vento cosmico, ma come suggeriva il Poeta, altre Ophelia, con l’opportuno ausilio di Carbonio14 e Berillio10, sapranno trovarle coglierle condividerle ancora in tintinnii corrosi, mai corrosivi, sempre fecondi.

La solitudine, dei portieri e dei funamboli

Pagina – o paginetta, come quella di Didimo Chierico? – su Stradivari, Antonio.

Varie strade, strade varie, ma come avrebbe detto l’inimitabile Professor Alfio, Strativari, liutaio insuperabile e insuperato di Cremona, o forse cuoco sopraffino di una lasagna fenomenale, tra la via Emilia e il delta di Venere.

Entrambi, il liutaio e il cuoco, allievi misteriosi e straordinari di ottimi maestri; entrambi molto bravi – i ragazzi di bottega – poi, all’improvviso e anche in modo sorprendente, talenti senza pari. Alchimia alchimia, per arcana che tu sia, tu mi sembri una magia.

Soli, come portoni serrati – in assenza di ritmo – a doppia mandata, come portici deserti ove nessuno passeggia più conversando amabilmente, solitari come portieri d’albergo, durante desolati inverni urbani.

Caro Wim, sei un inguaribile, impagabile ottimista se davvero pensi che il simbolo della solitudine sia il portiere della squadra negli istanti che precedono la sfida contro un avversario sul dischetto del rigore. Per conferma, chiedi a Giuliano, finora l’unico – a livello di ipocrisia ufficiale – calciatore italiano sieropositivo della storia. Sesso droga rock and roll, nelle allegre combriccole dei vari Dieguitos manileste, alla fine della bisboccia però, nessuno tocchi – si avvicini, fisicamente, umanamente – all’appestato: non erano solo discolacci, bravi guaglioni, erano piccoli uomini, anzi: uomini piccoli, ominicchi. Forse. Un Giulio lasciato solo in più, che differenza potrebbe fare, rispetto alla fama e ai profitti garantiti dal sistema delle menzogne?

Sequenze frequenti di solitudini, più di undici, di sicuro: sequenze e frequenze, frequentazioni frequenti e frementi, menti in sequenza. Menti all’opera per decifrare una sequenza, quella di Fibonacci. Forse lui potrebbe spiegare come mai quegli strumenti a corda restino ad oggi i migliori mai creati da mano umana artigiana, perfetti nelle forme lignee, perfetti nella geometrica produzione di suono musicale, voce umana dell’armonia universale eterna. Dipingere ispirati dalle teorie del Fibonacci di cui sopra, nome di battaglia, anzi scienza, di Leonardo Pisano – sempre meglio un genio pisano alla porta che menti morte in casa – che a essere puntigliosi lasciò la successione – numerica e omonima, grande preziosa eredità – dopo essere stato il collettore e il fautore della sintesi tra la geometria euclidea e la scienza matematica di calcolo di origine islamica. Come minimo, meriterebbe una medaglia di traditore della patria europea, fosse vivo ai nostri mesti giorni.

Non confondere mai il Liber abbaci, con il libro degli abbracci – bello lo stesso, ma non della stessa materia trattiamo – o peggio con il romanesco Libro (di Sora Lella, forse) degli abbacchi. Silvia, rammenti ancora l’abaco elementare che ci insegnò a contare gli scandalosi numeri arabi?

Per espiare, per emendare, per perdonare le mie 11 solitudini personali (formazione completa, schierata con la tattica 3 – 4 – 3), vorrei imparare da un trattato enciclopedico l’arte del funambolismo e poi camminare sul filo teso tra una biblioteca civica poco frquentata e un campanile diroccato, dentro un cielo arancione e viola, insieme all’Uomo dell’aria e all’Uomo a colori; ognuno insieme agli altri, ognuno con il bagaglio comunitario delle proprie solitudini e dei propri limiti, in viaggio verso un apparente orrido cosmico oscuro, varco dimensionale per raggiungere sentieri siderali, lucidare stelle opache, salvare vecchi sogni, immaginarne e allevarne di nuovi.

Le mie lacrime nel vento del tramonto troveranno presto compagne di ventura:

in viaggio etereo, cureranno i mali del Mondo, cominciando dall’aridità delle anime, dalla desertificazione dei giardini sentimentali.

Aldo Moro, ancora?

Pagina, l’ennesima, dedicata al Presidente.

Mancato, in tutti i sensi, il Presidente della repubblica del destino, quello che non abbiamo mai avuto; ucciso. Da una pletora di sicari. Lo statista – Lui sì – pugliese e il futuro di un paese che sarebbe stato diverso, assai.

In una sequenza molto potente di Esterno notte (serie tv di Marco Bellocchio) – effetto notte sull’Italia inconsapevole, da quel 16 marzo 1978 – Aldo Moro trascina se stesso e una enorme croce lignea per le strade di Roma, durante una via crucis da incubo nella mente dell’amico pontefice Paolo VI. Il coro tragico, composto da soli uomini, da coloro che dicevano di stimarlo, di essergli debitori per la formazione e la carriera, addirittura pronti a spergiurare di volergli bene, è fermo a osservarlo: individui distanti, decisi a non intervenire per alleviare la sua fatica, o per tentare di salvarlo dalla mattanza; un’immagine simbolica che non necessita di troppe, né di minime interpretazioni.

L’uomo dell’aria ha scoperto camminando su un esile filo teso sul baratro del Mondo che l’atmosfera non è trasparente, ma formata da particelle caleidoscopiche; lo aveva scoperto anche un bambino degli anni 70 che si chiudeva spesso dentro un vecchio armadio nel ripostiglio domestico: perfino il buio in realtà è denso di colori, ma quello era un varco magico per viaggiare nelle dimensioni spazio temporali, per esplorare l’Universo.

Quando dalla tua finestra vedi un tramonto commovente, con le nuvole che si tingono nella tavolozza di un grande artista per poi camminare di nuovo veloci nel cielo, se non esci a inseguirle, a viverlo, quel momento sarà irripetibile, perduto. Non esistono più profeti, mezzi profeti, sapienti dotati di πρόνοια, la capacità di vedere oltre, lontano e di organizzare gli eventi nel modo migliore per tutti; salutare non conoscere né poco, né molto il proprio futuro, ma nell’incertezza del cammino, sarebbe stato un privilegio procedere con Te al nostro fianco.

La luce è la sommatoria dei colori – o i colori sono il risultato della scomposizione della luce? – l’oscurità forse non è la sua negazione, ma l’altra metà, necessaria a renderla visibile, fondamentale per esaltarne le caratteristiche; così come l’Iscariota fu il traditore funzionale a rendere attuabile il piano divino, così i troppi Giuda nell’incubo di Paolo VI e nella nostra storia, hanno certo distrutto il sogno di una vera Italia compiutamente repubblicana e democratica, consegnando Aldo Moro non (solo) al martirio per mano di carnefici acefali: ma all’eternità degli Uomini giusti.

Nonno Ermes il Bersagliere – ermetico di nome e di fatto – davanti al servizio del tg sull’agguato di via Fani, sentenziò amareggiato: oggi la democrazia italiana è morta.

Come sostiene Simona la Scrittrice, mostrami le questioni, non spiegarmele, non analizzarmi, sarebbe superfluo, anzi peggio, inutile: eppure l’anelito alla conoscenza e alla comprensione è umano, almeno quanto la nostra componente bestiale. Capire – sottolineo capire, non giustificare o minimizzare – sarebbe fondamentale per progredire; aiuterebbe nuove leve di nuove generazioni a non incorrere di corsa, con furore, negli stessi errori e orrori.

Mister Neanderthal si dissocia, nega di conoscerci, soprattutto smentisce con forza – con la forza delle sue ragioni – di essere nostro parente.

L’auspicio resta immutato, Noretta Donna coraggiosa, Donna tenace nella dignità:

se non solo dopo, alla fine del viaggio, nella nuova dimensione, ma anche qui, ogni tanto, filtrasse luce fresca e pura, sarebbe bellissimo.

Orante

Pagina orante, meglio: dell’orante. Da non confondere con orate, per evitare commistioni forse blasfeme, però umane, umanissime, tra sacro e profano.

Se quell’orante – non odorante, forse ignorante, come siamo tutti noi fragili mortali, immortalati da troppe immagini, pochi gesti – è colui che prega, adorante nei confronti della meraviglia dell’Universo, dovremmo riscrivere un pochino di paginette sulla storia del senso religioso insito nell’anima dei bipedi, molta moltissima storia del nostro rapporto millenario con il Sacro.

Pregare sempre – potrebbe essere il titolo dell’opera – senza stancarsi mai: orate et (e)laborate, senza accampare affanni. Possiamo tentare con impegno e con convinzione di distinguerci, di appartarci dalla massa, dalla società di massa e di masse, ma nonostante indicibili sforzi anche noi siamo massa, nella massa e qualche volta messa. Impossibile restare ai margini, facile cadere preda dell’emarginazione e le differenze non sono dettagli marginali.

Una storia d’amore adolescenziale che attraversa le epoche, può resistere agli urti della cronaca spicciola, non alle mutazioni del cuore; si possono sostituire i fatti con le opinioni, renderli equipollenti, ingannare la memoria dei Popoli, soprattutto quando i Popoli sono emotivi e geneticamente senza memoria a medio, lungo termine, ma i fatti in se stessi, restano integri: nei millenni, cristallini, adamantini. Le risposte sono Altrove, seguendo giovani impavidi che camminano sulla battigia, andando incontro ai flutti, per abbracciare alte spumose onde ribelli.

Non sono in grado di stabilire e valutare similitudine e parallelismi tra Riace – mi rammenta qualcosa, una vicenda di migrazioni che ci accomuna e ci affratella molto più di quanto si possa ammettere nelle banali temperie quotidiane dei nostri tempi – e San Casciano dei Bagni; certo, senza tema – ma ispirando molti opportuni temi scolastici – di smentita, possiamo considerare quei bagni di fango e acque calde davvero salutari e propizi di lunga vita, se 2300 anni vi garbano e non vi sembrano eccessivi, o addirittura noiosi e insopportabili.

Lineare A, Lineare B, Aramaico, Etrusco: puoi rivolgerti a gogol traduttore – meglio Gogol, ha più familiarità e attitudine con le anime dei trapassati – oppure alle equipe delle magnifiche e magnifici studiosi che queste cose, anzi lingue, conoscono e frequentano con impegno e assiduità; siamo il paese, baciato dagli dei, che detiene il 70% del patrimonio artistico mondiale su suolo, per tacere di quello sotterraneo, mai individuato, né trafugato dai tombaroli professionisti – non esistono più i tombaroli di una volta (CIT.) – e che ci racconta di civiltà e genti di origini svariate che per vicissitudini varie e eventuali si sono amalgamate, producendo cultura e autentico progresso. Senza inutili spiegoni o pipponi pseudo dotti.

Facce di frolla (magari!), facce di bronzo abbondano in ogni epoca, ma queste che sono giunte fino a noi attraversando gli eoni e le dimensioni spazio temporali, sono davvero portentose; chissà se meritiamo questo prezioso carico residuale, recapitatoci dalla storia e dalla sapienza e dedizione delle/dei Sapienti, o se il carico residuale, sempre troppo esteso, sempre insopportabile, è costituito solo dalle nostre vergogne.

Sono questi scavi archeologici, gli unici cunicoli che ancora dovremmo autorizzare attraverso i nostri già troppo martoriati territori e fondali. Subsidente sarà lei e tutta la sua famiglia: trivella trivella, qualcosa resterà?

Un tempo la preghiera laica del mattino consisteva nella lettura della mazzetta dei quotidiani, oggi, forse, meglio astenersi; meglio abbarbicarsi a preci dedicate alla sacralità della Vita, con le note di Ennio, immortali musiche nel vento, o con i brani di libri steineriani (Steiner, Marco, Amico di HP e Corto Maltese): qualche segreto magico emergerà, qualche nuovo orizzonte sarà finalmente illuminato.

Mentre troppe guerre sono padrone della Terra – per citare il Povero Cristo di Vinicio Capossela – vorremmo trasformarci in quel gruppo bronzeo orante, per chiedere una grazia, grande:

non essere più strane macchine che sbattono le une contro le altre (PPP docet), ma tornare semplici, meravigliosi esseri umani.

Vita plastica e nuvole

Pagina del Mancuso, Stefano.

Per scriverlo con le sue parole – ma non solo, nel senso che anche altri scienziati, intellettuali, artisti, semplici cittadini del Mondo (in fondo, ognuno di noi è anche qualche volta un po’ tutto questo) – lo denunciano: dal 2020 in poi, sorbole raccapriccianti, i materiali prodotti dall’uomo hanno superato la vita (tutti e tutto ciò che vive) nell’occupazione di spazio sul Pianeta, in termini di peso specifico e volumetrico.

Sani! Continua a urlare Marco Paolini in un meritevole e meritorio spettacolo che denuncia tutto questo e soprattutto le sue conseguenze, facendoci sorridere amaraMente e con la mente che sorride e mastica amaro, riflettere. I trisavoli dicevano che, in fondo, nella vita, l’importante è la salute, ma i disincanti delle ere successive ci hanno indotti a replicare con cinica ironia: avercela.

Sarà come sempre solo una bieca questione di quattrini – e dunque, al dunque, i diritti, tra i quali la preziosa salute, restano appannaggio di vetri appannati, di esclusiva proprietà di chi, avendone accumulati da rendere pallido Creso, può permetterseli – ma la sedicente evoluzione umana e il sedicentissimo progresso (in realtà, solo crescita dopata del mercato neoliberista) appaiono l’approdo finale dell’umanità stremata dalla regata plurimillenaria; sia lode a PPP perché come lui nessuno mai ha saputo, dall’infanzia alla morte violenta, raccontare e scandagliare il XX secolo, l’Italia e tutte le ipocrisie e nefandezze dell’animo degli uomini, nessuno come lui ha saputo diventare carne, sangue e vita vissuta, consumata, delle sue stesse opere.

Soffochiamo tra cemento, asfalto, metalli, plastica, mentre potremmo respirare poesia, perché le soluzioni esistono e non sono quelle che conducono alla povertà generalizzata – come se fosse una colpa, o un virus pandemico, nella strumentale visione di chi detiene le leve del potere – ma, forse, alla vera felicità. O a varie forme alternative e armoniose di felicità comune.

La creatività si accende quando meno te lo aspetti, quando credi che la tua situazione sia spiacevole o addirittura dolorosa; bloccati, ostaggi di un conglomerato congestionato di immobili scatolette di latta – se ti sembra caotico il traffico di Napoli, Roma, Milano, cimentati con quello di Tokyo – respirando gas venefici, a chi mai potrebbe venire in mente, balzare in capa, tutto un universo popolato da formidabili robot che, a seconda del libero arbitrio e del cuore di coloro che di volta in volta ne assumono il controllo, hanno la facoltà di rendere il pilota un dio benevolo o un demone annientatore? Non siete, non siamo tutti Go Nagai. Per scrittori e artisti delle immagini è facile declamare quale proprio motto il detto latino nulla die sine linea – frase attribuita a Apelle non figliolo di Apollo, ma comunque artista – più complicato per bipedi comuni che come tratto di demarcazione e orientamento hanno spesso solo la propria linea d’orizzonte degli eventi quotidiani personali. Eppure, ciascuno potrebbe rendere i propri limiti e la propria stranezza punti di forza e di svolta dell’esistenza. Un’acrobata circense zoppa, un’ala destra con una gamba più piccola dell’altra a causa della polio contratta durante l’infanzia, un autore sull’orlo della paranoia tormentato da personaggi creati dalla sua mente, mai messi scena e che, all’improvviso, non si accontentano più solo di comparire in uno spettacolo teatrale, ma avanzano la pretesa di vivere, nella realtà reale.

Rinunciare ai propri documenti d’identità, provare il brivido da sans papier – quali documenti, se quel filosofo rompiscatole ammoniva di continuo Conosci te stesso! – con il sogno dolce di offrire una propria novella, poesia o disegno per essere riconosciuti nella propria identità, senza margine d’errore: come David Wiesner, uno tra i più grandi illustratori viventi, capace di disegnare storie che non hanno necessità, corredo, aggiunta di testi scritti. Testa tra le nuvole, nuvole di fantasia al galoppo dentro la testa: immagini così potenti e immaginifiche da rendere espliciti anche i vuoti, da riuscire a parlare a chi sa vedere – i Bambini – anche in totale assenza di parole, dialogo muto grazie a una gamma infinita, un caleidoscopio emozionale così vasto che anche solo una battuta onomatopeica risulterebbe un orpello ridondante.

Fabbriche in cielo che dalle ciminiere espellono magnifiche nuvole, non gas inquinanti, come quella fabbrica terrestre, antitetica alla vita, produttrice di nuvole artificiali e letali. Volare tra le nubi di multiforme fogge e ingegno, come solo i Bambini sanno fare, magari in compagnia di uno strano, bizzarro elegante signore con bombetta in testa, perché le Nuvole sono vive e vagano in cerca di amici. Ritrovarsi dentro realtà metafisiche, madidi di gocce a forma di pendole e clessidre, dopo una corsa a perdifiato su piazze scalene poco euclidee, una dopo l’altra, senza soluzione di continuità, in compagnia di tigri di carta colorata.

Cestinare una volta e per sempre il ciarpame delle merci e delle parole inutili, ingannevoli, ipocrite degli Uomini:

lasciare che i Fanciulli, “molto più perspicaci degli adulti nella lettura delle immagini, capaci di vedere molto di più“, contemplino le meraviglie del Mondo, inventando nuove narrazioni, nuove parole vere;

per raccontare una storia nuova, per (ri)generare un’Umanità pronta a sognare, senza più interruzioni.

Le storie (dalla notte e le altre)

Pagina delle storie, quelle che sgorgano di notte.

Dentro un antro buio con rudimentali rupestri graffiti, con l’impetuoso affiorare dei flutti di parole di un fiume sentimentale carsico, tra i fumi del tabacco e degli alcolici dentro una stamberga berlinese del primo 900.

Sgorgano irrefrenabili, istintivo primordiale bisogno umano di raccontarsi, di raccontare. Come sostiene Corto Maltese marinaio nonché gentiluomo di fortuna e lungo corso – anche lungo i corsi si narrano amabilmente molte storie – affinché esistano storie non servono personaggi, né trame, davvero necessaria è solo la memoria. Storie senza memoria sono come vasi vuoti – magari preziosi Ming, ma vuoti (horror vacui) – una società senza memoria diventa in fretta una bomba a orologeria, pronta a deflagrare: annientando tutti e tutto, senza remore, senza pietà.

Le storie nascono sulle e dalle gambe degli uomini, prima ancora che nelle teste e nei cuori; nascono con gambe in cammino e occhi bene aperti sui sentieri del Mondo, sulle vite degli altri da noi.

Dalle crepe su muri diroccati spiare senza vergogna la storia, le storie, come si trattasse di uno schermo di qualche antico cinematografo d’essai; di solito i fantasmi sono attori fantastici.

Da una finestra spalancata su un’ottobrata anomala quanto insana, le voci dai cantieri, le voci dalle case, le voci dagli e degli alberi, entità vegetali superiori, coacervo di poteri arcani e meravigliosi. Hai notato anche tu – vero? – che quest’anno l’autunno è torrido come quello degli anni 70, eppure appare e si mostra sottotono?

Quando parti alla scoperta di nuove storie, presto ti accorgi che si amplia la tua personale percezione degli orizzonti che già esistono ma spaventano per l’immane vastità, si illuminano le tue aree di tenebra, si sviluppano le risorse dell’anima e delle mani per fronteggiare gli ostacoli e gli imprevisti, si moltiplicano all’ennesima potenza gli incontri con altri storionauti, pronti a collaborare alla scrittura delle storie, pronti a ampliare la comunità solida e solidale.

Nutrimenti comuni, infiniti punti di vista e anche di svista;

miliardi di storie intramontabili.

Psicologia silvana e transizione umanistica

Pagina del silenzio che ferisce. Fero – ‘sta mano pò esse piuma o pò esse fero – fers (Fersen, il Principe?) tuli latum blem blum ferre. Siamo davvero ai ferre corti, con la nostra scienza senza coscienza.

Il tuo silenzio mi ferisce; ritrovarsi alla guida dentro un incubo, però reale, parlando ad un navigatore satellitare ermetico (e se lo dico io), silente ormai da decine di chilometri, immersi in un traffico veicolare caotico e ferino (come il salame? no, quello almeno è felino);

oh, navigatore satellitare silente, come i tapini addetti dei fast food nelle moderne – moderne? – stazioni ferroviarie contemporanee, ormai tramutati in automi umani – ex umani automizzati – formattati per servire meccanicamente orrendi orridi panini a persone altrettanto, parimenti (menti parificate) silenti silenziose, mute che dialogano con difficoltà attraverso un rudimentale linguaggio gestuale, coadiuvati eterodiretti da strumenti elettronici in contatto continuo e ininterrotto con terminali video che emettono luce blu elettrica disumana, fredda.

Inservienti e clienti inconsapevoli che scaldano i posti a coloro che presto li sostituiranno in toto e per todo modo: automi veri, sofisticatissimi droni senzienti, Cyborg che ruberanno loro non solo il lavoro, ma il posto in società, ruberanno non l’anima – ché forse quella sdrucita da tempo, l’abbiamo smarrita da soli per incuria permettendo tutto questo – e dunque le nuove battaglie sindacali dell’evo 4.0 saranno adeguate alle intemperie dei tempi pseudo moderni: cyborg sostitutivi degli umani sì, però – sul punto saremo tetragoni e inflessibili – cyborg di progettazione e costruzione orgogliosamente nazionale.

Non uno sparo, ma finalmente una voce nel buio: fra 800 metri, girare a destra, imboccare – siamo in uno spot plasmon? – via (non è uno scherzo, purtroppo) via Ke Guevara. Forse non ho capito io, molto probabile, non si trattava di pronuncia sbagliata, ma di affermazione di meraviglia e ammirazione: Ke Guevara, l’Ernesto!

Ke Guevara certo, ma anche Ke Scipione, Africano per giunta e per Bacco: a Zama, Annibale e tutto il suo parco di Elefanti non se la passarono bene. A proposito, vi sarete chiesti spesso anche voi dove accipicchia sorgesse questa Zama; Africa settentrionale, indicazione un po’ vaga, ancora peggio se le stesse accreditate fonti storiche ci raccontano che all’epoca esistevano addirittura tre insediamenti urbani con lo stesso nome. Grande è sempre stata la confusione sotto il Cielo e speriamo che almeno quello resti lo stesso e non ci frani sulla capa.

Dormire, pensare, sognare forse, ma sognare come fanno le foreste: ci credereste voi? Esiste una biologia neurovegetale, forse se imparassimo a pensare e soprattutto a sognare come le Foreste riusciremmo a comporre la frattura tragica esiziale tra noi e la Natura. In fondo, i nativi dell’Amazzonia – come ad esempio i visionari (con qualche coadiuvante micologico) Runa – ci insegnano che il cosmo in ogni sua espressione possiede un’anima, un grande respiro vitale che pervade l’Universo; perché non potremmo anche noi cominciare a vedere il mondo attraverso le stesse immagini che ‘vedono’ gli alberi? L’antropologo Eduardo Kohn, origini familiari che meriterebbero una saga romanzesca, da anni sostiene sia giunto il momento per l’antropologia di varcare nuovi confini, esplorare i sentieri che conducono oltre gli steccati ormai vetusti tra cultura e natura. E’ stata l’artificiosa strumentale acefala separazione tra Popoli e habitat a farci deragliare ad un passo dal disastro ecologico finale.

Caro Orhan, che ti dibatti nelle notti della peste, o delle pesti varie variabili duplici, anzi molteplici, insegnaci se puoi, se ti senti generoso, a cavarcela nelle circostanze – con circospezione che non è l’ispezione del circo – complicate e misteriose di questa vita sedicente moderna.

Servirebbe una vera transizione umanistica, come predica e bene per il bene comune Gael Giraud, economista gesuita: generazione 1970, questo depone a suo favore. Sostiene da anni – guardato a vista con sospetto dai suoi colleghi – che serva presto, da ieri, riscrivere i codici del capitalismo per archiviare quello neoliberista e generare invece quello ecologico; rottamando una volta e per sempre il famigerato PIL, “misura stupida delle cose, in quanto distorta, ristretta, parziale”. La transizione ecologica senza benessere comune non esiste, infatti al momento non esiste ed è anzi ipocrita perché i più importanti gruppi bancari mondiali continuano a finanziare e a scommettere solo sulle fonti fossili, ridipinte – anche malamente, maldestramente – di verde. Serviranno in fretta gli antichi valori europei per fondare un nuovo umanesimo e una nuova antropologia relazionale.

Non ci credi, figliuolo? Eppure, senza nemmeno necessità di arrampicata sugli specchi con o senza ventose, già negli Atti degli Apostoli – siamo non nella campo personale della fede, ma in quello dei testi storici – nelle prime comunità cristiane i beni essenziali erano condivisi; anche per San Tommaso d’Acquino, la res communis è superiore ad ogni diritto alla proprietà privata. “Per questo – sostiene con convinzione Giraud – i cristiani europei potrebbero rivelarsi decisivi per il cammino verso una democrazia decentralizzata, nella quale i beni fondamentali per la sussistenza dell’Umanità sono beni comunitari”.

Dovremmo, prima o poi, magari come evoluzionaria forma di class action globale, chiedere tutti – nel senso di tutti i Popoli – la cittadinanza dell’Ecuador, primo paese al Mondo a riconoscere Madre Natura come soggetto portatore di diritti: pare eccessivo formulare la richiesta di inserire questo semplice articolo in tutte le Costituzioni del Mondo, affinché diventino sane e robuste?

Possiamo, dobbiamo riuscirci; psicologia silvana applicata e scienza psichedelica:

il gioco è (sarà?) fatto.

Di alcove lunari e ucronie

Pagina della mente, dell’immaginazione e delle mani di Milo Manara: magara!;

pagina di tutte le sue Donnine, della sua creatività, della sua capacità di distinguere i narratori in 2 categorie: gli dei e gli immanenti, quelli che devono abitare nelle loro storie.

Pagina delle storie senza una trama – rammenti Federico da Rimini? – trame di canto, trame di episodi anche minimi, ma con personaggi formidabili.

Divagare attorno al Kamasutra, manuale poco ginnico, molto lirico filosofico; dipende sempre dalle matite di chi lo disegna: l’eros e la seduzione sono elaborazioni culturali.

Pagina dell’ingresso trionfale o anche solo popolare nel mondo di Ucronia; parola che qualche illustre docente dovrebbe con gentilezza farmi prima capire spiegare assimilare. Azzarderei ad un potenziale, potente connubio tra Utopia e Kronos – mi rammenta una canzone – una sorta di what if, non intellettuale culturale, quello dei fumetti: frequentavo i sentieri di Ucronia a mia totale insaputa, leggendo le storie disegnate di Batman, Spider Man, dei Fantastici Quattro, quando i loro autori, in vena di sperimentazione, andavano a briglie sciolte sulle selvagge piste delle ipotesi alternative rispetto alle caratteristiche e ai fatti biografici salienti e consolidati dei personaggi.

Mi sono perso, la vera disdetta, forse, è che ogni volta mi ritrovo.

Vittima colluso o paraflù (reo confesso, e il fesso sono io), delle ineffabili – certo conoscerete, anche senza menare il dito per l’aia, l’etimo completo e reale del lemma – farneticazioni della mente; imparare molto di più sulla solidarietà e sul ciclismo durante – non degli Alighieri – una pedalata di tre giorni a ruota libera che nel mezzo secolo antecedente (tutto ciò che è umano cede, tranne l’anima e gli assi cartesiani che le forniscono la rotta) o solo precedente.

Vox populi, vox Dei, certo, potrebbe essere; a parte fasi storiche durante le quali i Popoli parrebbero afoni, siamo però sicuri che verba populi, equivalga e/o coincida con verba Dei? Una questione fondamentale, meno peregrina di colui che si fa indegno, virtuale portavoce – per restare in tema – dell’angoscioso dubbio; se non a me, chiedete opportune documentate certificate risposte a uno dei più grandi esegeti biblici viventi. Attenti alle teste.

Ucronia è come la crisi, tutti si chiedono in città, sui mezzi di trasporto, al bar, al lavoro: cos’è mai questa ucronia? Cosa sarebbe accaduto se Caino fosse stato un fratello amorevole? E se Lucrezia Borgia, invece di distillare veleni, fosse diventata la più grande inventrice – si può scrivere, senza tema di incorrere in ire funeste di Erinni a caccia di cause? – di bibite del mondo? Ancora: se Napoleone fosse riuscito a invadere la Russia, oggi a Mosca come vivrebbero i cittadini? E se a Hitler fosse stata concessa un’opportunità di diventare davvero artista, invece di un complessato rancoroso imbianchino con smanie da onnipotente satrapo universale?

A proposito, l’amato Michelangelo Merisi in arte Caravaggio era un’anima inquieta, tormentata, ma le sue tele raccontano una storia diversa sul suo conto; non attaccabrighe lestofante, ma impulsivo cavaliere – armato di spada – in difesa delle Donne umiliate, maltrattate, violentate; la luce splende su e dentro di lui e questa pare sempre di più verità, molto lontana da una suggestiva ipotesi ucronica.

Se i Robinson – nel senso del naufragio – fossero stati una tipica famiglia italopiteca in crociera, potreste voi immaginare le loro avventure sull’isola deserta? Una storia simile (quasi) la scrisse Emilio, l’ex bambino che desiderava disegnare il vento e che nemmeno per un solo istante si è fatto vincere dalla tentazione di trasformare Mompracem in una piccola isola mediterranea, né di attribuire a Sandokan e Yanez nazionalità tricolore: sarebbe finito tutto a tarallucci e vino – sia con Lord Brooke, sia con la setta dei Thugs (saranno stati anche sacri, ma sempre strangolatori) – con pantagruelica spartizione di ogni anfratto terracqueo e ogni risorsa, disponibile e/o indisponibile.

Vagheggia Paloma Blanca, vagheggia più che puoi: se oggi, 530 anni fa, quel Colombo di Cristoforo, approdando a San Salvador, avesse toccato, posato il piede, invece che nel Nuovo Mondo, in un Mondo Nuovo, come sarebbe proseguita la navigazione dell’Umanità?

Voliamo sulla Luna – verso il Sole ci abbiamo già provato nell’era mitologica, meglio imparare se non dalla Storia, almeno dalle storie – insieme a Icaro:

sarà totale nel Suo splendore, solo per noi, si trasformerà in un’alcova ecumenica – senza condanne contro presunti lascivi imenei – indurrà e veglierà sull’Amore selenico – finalmente ognuno come gli garberà, come tra Parva e Shiva di milomanariana creazione – perché in fondo il vero potere delle comunità di Ucronia è correggere i tempi bui.

Dove si rischia che imperversi il nulla letale, dal nulla inventare nuove strade, forgiate con la Luce.

Hysteria

Pagina di una vita fuori sincrono.

O quasi. Sentirsi spesso sfasati rispetto ai tempi e soprattutto ai modi del resto del Mondo; senza arroganza, né prosopopea da fenomeni paranormali, presenti già in eccesso a ogni latitudine, longitudine e financo solitudine.

Partire in bicicletta per un tour del FVG, con dentro le orecchie – la testa? quale testa? – il cuore, lo storico brano Hysteria dei Def Leppard; se siete davvero abili psicolabili cicloabili, cimentatevi voi alla batteria rock senza un braccio. O in sella, senza una gamba.

Progetti, vade nel retro: giammai! Almeno un vago programma, un brogliaccio – quel brogliaccio brutto e unto vergato in via Merulana – un inconsistente canovaccio, molto utile a improvvisare sketch divertenti, irriverenti, di parossistica parresia e soprattutto asciugare stoviglie appena lavate. Del resto, le stoviglie sporche, si lavano in casa, propria per i più fortunati. Fino a ieri.

Pedalare per sensibilizzare: in sella ad una delle più formidabili invenzioni dell’Umanità, sotto un diluvio non universale, parecchio antipatico sì, mostrare alla luce del Sole – o meglio, ai raggi del nostra stella madre, la più luminosa, rifratti da infinite gocce di pioggia – che la patologia vigliacca fugge da chi pratica attività sportiva. Pedalata collettiva, comunità ai pedali formata da persone un po’ speciali, con qualche marcia in più o con sensi di marcia comune che consentono di affrontare nello specifico il diabete – ma vale anche per altre patologie – senza piombare nello spaesamento, nel labirinto delle fobie, nel naturale senso di solitudine e abbandono che potrebbe ferire di primo acchito al manifestarsi certificato dello spiacevole ospite. Si fatica, si canta, si ride, si condividono cibi, companatico, bevande, in gruppo per affrontare con vigore le difficoltà, per vivere bene, meglio, totalmente la Vita. Il Mondo è già bello di suo; quando condividiamo passioni, quando diventiamo empatici e collaborativi, lo trasformiamo nel giardino dell’Eden.

Crescimbeni e Gravina, chi mai saranno stati costoro? Eppure, per spirito d’emulazione, nei confronti di questi novelli carneadi del 1690, progettare e realizzare, in silenzio e senza averne l’aria, una neo Arcadia: una risposta ancora una volta di piccole comunità, un movimento circolare concreto, rigenerativo, contro ogni forma di cattivo gusto, contro ogni sostanza di cattivi pensieri. Arcadia ellenica, Arcadia nave pirata con la bandiera della libertà, quella vera, un luogo nel quale le qualità dell’individuo siano valorizzate non per vanagloria o profitto, ma per il bene comune.

Isteria, non nell’accezione greca antica, frenesia malata di individuare civiltà aliene – la nostra non è già abbastanza alienata? – e nuovi pianeti abitabili, in tutta teoria (ah, le smanie seleniche goldoniane delle villeggiature transplanetarie);

il Pianeta più bello, l’unico per noi, è quello sotto i nostri piedi, sotto le nostre ruote con i raggi:

basterebbe smettere di deturparlo, basterebbe amarlo.

P.S. Questa non è isteria, ipocondria, ma pura parresia socratica.

Festa dell’oblio (no festival memoria corta)

Pagina dell’Alzheimer, ogni anno una festa per questa patologia neurodegenerativa.

Non in senso stretto, festa intesa come celebrazione per sensibilizzare, per evitare che la società – come spesso avviene per le realtà e addirittura per le persone poco gradite – dimentichi e cancelli la malattia della dimenticanza.

Qualcuno, colto preparato sensibile – ha scritto che l’uomo più che un animale sociale è un animal obliviscens, un animale che oblia: una vita di sacrifici fatiche studi per apprendere e poi magari in pochi mesi, un colpo di spugna e dentro di noi tutto torna, in modo crudele imprevisto inaccettabile, tabula rasa. Un palinsesto su cui niente e nessuno potrà più vergare segno o parola.

Talvolta eliminare rimembranze è una necessità, una forma di salvezza attraverso il sale dell’oblio: sale che disinfetta le ferite e oblio per distruggere quanto ci ha fatto male, fino a spingerci quasi alla pazzia o al suicidio. Ma il sale non solo cauterizza, può servire – delenda Carthago – anche a rendere sterile un terreno sul quale sono rimaste solo macerie.

Percorrere una strada che non esiste, eppure vera concreta di asfalto grigio topo, come scrivevamo alle elementari negli anni 70. Una strada nella quale mai ci eravamo imbattuti in precedenza o un portentoso parto della nostra immaginazione? Le vie della mente sono infinite e non hanno bisogno di asfalto e cemento.

Qualcuno sostiene – non Pereira – che la malattia della dimenticanza causi ai volti l’espressione da Lion’s face: magari. C’è chi cerca gli occhi della Tigre, ma se li incontra, prega che sia impagliata e trema lo stesso come foglia travolta dal vento degli eventi. Sarebbe bello anche perdendo l’hard disk della materia grigia, conservare un secondo stomaco – a Napoli lo ribattezzerebbero, come il caffé, stomaco sospeso – quello sociale; come le formiche, una sacca di cibo di riserva da mettere a disposizione di chi sta male e per vari motivi non riesce a procacciarselo. Emulare il grande popolo delle formiche: mettere a disposizione della comunità, del bene comune, i propri talenti e le proprie competenze, come i giovani della parrocchia veneziana di Santa Maria dell’Orto che dopo tanto impegno, passione, studio, lavoro recuperano l’archivio storico della chiesa e la pergamena preziosa con l’atto di morte di Jacopo Robusti (o Comin, errore, scherzo di memoria?), forse più noto come Tintoretto pintor.

Perdersi tra i sentieri della vita, per averne cercate e vissute troppe (vite); smarrire la memoria per avere sognato troppo, senza mai tradirne e/o abbandonarne uno (sogni); perdere la bisaccia onirica, senza perdere se stessi.

Immergersi nel fiume dell’oblio per emergere uomini nuovi; poi essere solo nuovi uomini e cercare disperatamente il fiume gemello, quello del buon ricordo, ove risalire la corrente come leggendari salmoni o annegare, lasciando però al pianeta dopo (futuro?), almeno un frammento positivo, una scheggia degna di rimembranza: rimembranza azzurra, dove immerse le belle membra colei che a ognuno pare Donna.

Per quando l’Umanità sarà finalmente maggiorenne, adulta, saggia – come una filosofa presocratica che sapeva quanto la scrittura fosse uno strumento diabolico e meraviglioso – potremmo erigere una Fletcher Memorial Home, quella immaginata da Roger Waters: ove rinchiudere tutti i mali del mondo, senza connessione con l’universo o con i metaversi, applicando finalmente la soluzione finale, senza soluzione di continuità, e in questo caso, solo in questo, conferire pieni poteri all’Oblio. Se vuoi uscire dal labirinto, spalanca le porte della percezione e segui il suono della chitarra di David Gilmour.

A patto che la festa dell’oblio non diventi il festival della memoria corta:

nel paese che cancella minuto dopo minuto quanto avviene, regno incantato della replica delle repliche.

Virus o meteo

Siamo transitati a nostra insaputa, dal modello Giuditta, a quello matematico. Un modello che da variabile è diventato come il diamante della reclame: ora e per sempre. Nessun senso, nessuna correlazione.

Peccato sia obsoleto – fuori moda? Fosse solo così – e inadeguato. Ci basiamo per stessa ammissione dei responsabili su modelli previsionali (che dovrebbero poi attivare la complessa macchina di allertamento e intervento) ampiamente inadatti alla realtà geofisica del nostro paese. Per tacere del fantomatico leggendario piano di messa – cantata ma funebre – in sicurezza del territorio, anche questa ferma, bloccata, paralizzata in una clessidra guasta e soprattutto mai attuato. Ci sono però, immancabili puntualissimi corvacci del malaugurio, gli occupanti delle istituzioni che inviano il loro cordoglio e le loro promesse di pronto aiuto da parte dello stato. Quale e quando non è dato sapere, sarebbe anche scortesia porre domande.

Ci si accapiglia per la scapigliatura energetica, ma se avessimo ripassato la storia – anzi, se la Storia ci avesse fornito una giusta e vigorosa ripassata – sapremmo che l’energia, sarà stata certo utile alla crescita economica/tecnologica, ma da subito, proprio dall’800 più 1000, è stata foriera di terribile impatto sul pianeta; organizzate una seduta spiritica (ci sono ancora politicanti molto abili in materia) e chiedete a qualche londinese dell’epoca: nebbia oscura per le strade, sporcizia, malattie respiratorie, tutto in nome del dio carbone. Alle anime belle piacerà conoscere la vera vita, la vita vera di Viki il Vichingo, impavido guerriero dei Mari, costretto però ad abbandonare la Groenlandia nel Quattrocento: per timore di un nemico più potente? In senso molto lato, la cupidigia umana che spesso sfocia in idiozia: la mancanza di legname a causa di eccesso di abbattimento di alberi, la terribile crisi del legno, ante litteram.

Non si tratta di avere ragione o torto, non siamo alle sagre di paese di una volta con la giostra del Sarracino o l’Albero della cuccagna o il palio del Cinghiale; qui, purtroppo, non ci saranno vincitori, solo sommersi e arsi. Chiedetelo al fiero popolo Klamath, tribù di nativi un tempo padroni a casa loro dei territori rigogliosi tra California e Oregon. Chiedetelo al grande lago omonimo, ormai praticamente arido, a causa dell’innalzamento esponenziale della temperatura e delle conseguenti, inarrestabili tempeste di sabbia. La siccità da attività industriali antropiche modifica la quotidianità, i territori, mette a rischio estinzione la vita stessa. Perfino di coloro che mettendo – è il caso di dirlo – la testa sotto la sabbia, si rifiutano di ammettere la crisi climatica. Una morte asciutta, di bagnato e salato solo le lacrime, forse.

Sembrerebbe una banalità, eppure, spesso, dobbiamo ricorrere alle antiche, voluminose – a volumi, infatti – enciclopedie cartacee, o ad altri oscuri oggetti dell’arredamento: i libri. Uno di Telmo Pievani ci rammenta dal titolo che la Natura è più grande di noi; siamo entrati incoscienti nell’emozionante era delle pandemie, ma noi stessi siamo un coacervo – non una mandria di cervi al galoppo, magari – di batteri e virus, addirittura a miliardi. Cerchiamo affannosamente nuove potenziali super Terre nelle profondità dell’Universo, chiediamo alla scienza la formula alchemica dell’eternità, ma nel 2200, con i ritmi attuali, la temperatura sarà mediamente più alta di circa 8 – 10 gradi centigradi. Se non fossimo sciocchi, vedremmo in faccia la realtà: dal 1970 a oggi, il 60% di mammiferi, uccelli, pesci e rettili è sparito dalla nostra piccola, fragile casa comune. Ci illudiamo che le sofferenze e le morti per mancanza di cibo, acqua, cure, catastrofi avvengano solo e sempre a degli imprecisati altri, lontani e lontano da noi; ma come cantava Umberto Tozzi, gli altri siamo noi. Non dimostriamo di essere animali intelligenti. Organismi meno appariscenti ci superano in materia grigia: api, vespe, termiti e formiche, solo per citarne alcuni, imparano e evolvono insieme all’Ambiente. Noi siamo come i modelli matematici dell’incipit: fermi, paralizzati nella nostra arrogante presunzione di superiorità.

Prometeo (pro meteo?) oggi verrebbe incatenato a Chernobyl o a Fukushima (scegliete voi l’incidente nucleare sicuro e verde che vi garba di più), o forse, versione più credibile, si auto incatenerebbe per protesta: ho rubato il fuoco per voi, ma voi siete riusciti a spegnere perfino il Sole, quello dell’intelligenza. Virus, meteo, inquinamento: opta di quale morte dobbiamo perire, tanto, come dice il principe degli Esegeti, siamo tutti potenziali funerali.

Nel gran finale, non ci serviranno l’inglese e nemmeno l’esperanto, temo; speriamo almeno di apprendere sul gong l’arte della Crisalide: se non diventeremo farfalle nell’Uno universale, potremmo almeno aspirare a diventare coma la Luna di Saturno, scoperta da Galileo, quella che dopo l’esplosione in miliardi di frammenti, originò i caratteristici anelli del pianeta gassoso.

Pareidolia, dolce illusione sei tu

Idolatrare – l’incipit può essere un verbo che si protende verso l’infinito? – è il latrato adulatorio nei confronti di un idolo?

Esistono più cose nel greco antico e nella loro filosofia – come di chi? Dei Greci – di quante tu creda possano essere elaborate da tutti i calcolatori elettronici attuali, dentro o fuori dal metaverso.

Siamo tutti vittime di apofenia o colpiti in pieno da illusione pareidolitica? Avessi sottomano,  sott’occhio, a portata di mano un dizionario, potrei millantare conoscenze altolocate di dotti lemmi. Invece, brancolo: a naso, a orecchie, a incerti tentoni, nonché tentativi; pareidolia, la sciocca, umana convinzione subconscia di riuscire a interpretare e ricomporre le immagini e i frammenti sconosciuti e casuali dentro forme note, quotidiane, per noi familiari. Deliri della controra, ispirati da quella, geniale, non mia, sgorgata dalla creatività infinita di Rebecca, la prima penna, scrivente.

Meno male che all’improvviso arriva lui, il signor K., con quegli occhi grandi lucidi indagatori, capaci di scavare dentro le nostre anime, dentro le parole, per trovarne il significato più vero; capace, lui, di disegnare le persone e il mondo con una matita: fumetti muti, ricchi di immaginazione senza fine, senza briglie, senza confini.

Socrate o Isocrate? Bare o isobare, questo il dilemma: isobare, tutta la vita. Socrate fu costretto al decotto di cicuta, mentre Isocrate – non i Socrate, sit com in voga nel teatro ateniese del V secolo – fu retore e soprattutto maestro di giovani che avrebbero intrapreso la carriera politica. Se a tempo perso, potesse tornare, saremmo grati. Logos come parola e discorso, ma anche come pensiero e strumento per indagare la realtà. Quale? Tutte.

Non vorrei indispettire Emil Cioran, ma davvero mi convince sempre più il proposito di diventare vate del vuoto interiore, piuttosto che cloaca di indebite oppressioni esterne; alla fine della storia, come diceva lui, meglio avviarsi con un fiore all’occhiello.

Vogliono imporre ai popoli il costo dei loro crimini, ma chiamano l’operazione nuova necessaria sobrietà; lo dicano anche ai geni del marketting, che imperterriti descrivono il pianeta con spot incastonati nella resina anni ’80: edonismo e consumismo a go go.

Una casa si edifica cominciando dalle fondamenta, come insegnano messer De La Palisse e l’immortale Catalano, ma potrebbe capitare a qualcuno di tralasciare di ultimarla con il tetto (al gas e beni di prima necessità). Ne usufruiranno i soliti sospetti, ma potrebbe anche essere una soluzione per magioni con vista panoramica sul cielo, sulla volta stellata notturna. Certo, i più maliziosi notano che l’assenza di tetti potrebbe essere imputata al solito famigerato mercato, quello che non si auto regola, né ora, né mai. Questo increscioso fatto dei tetti complica non poco vita e lavoro a categorie molto amate e popolari: gatti, ussari, supereroi (Batman, Spiderman). Trasvolando con la fantasia, chissà poi come Marco Polo avrebbe potuto descrivere al Kublai Khan le 55 città calviniane, se nel corso del suo meraviglioso viaggio si fosse imbattuto in edifici completamente scoperti.

Bisogna però riconoscere che non tutti i privilegiati sono privi di dignità, non tutti i nobili al cospetto di avversità settembrine, si danno a precipitose, disordinate fughe, abbandonando nelle pesti i rispettivi popoli. Il conte Rostopchin, governatore di Mosca, dopo la disfatta di Borodino che sembrava il prologo al trionfo delle armate napoleoniche, diede l’ordine ai suoi concittadini, di incendiare ogni cosa, ogni casa; fornì lui in prima persona l’esempio, cominciando dalla propria abitazione.

In questo frangente – a proposito di celebrazioni, mezzo secolo dalla prima apparizione televisiva – nemmeno Ten, l’assistente cinese di Nick Carter (spassoso investigatore a fumetti, creato da Bonvi e Guido De Maria), potrebbe esclamare la fatidica frase: come dice il saggio, l’ultimo chiuda la porta.

I tetti non li hanno costruiti, le porte sono in cenere: speriamo che almeno buoi e muli siano riusciti a salvarsi.

Veliero o giunca, siano mare e naufragi

Una giunca rosso fuoco, ormeggiata sulla pagina e nella darsena degli yacht; darsena di lusso per una imbarcazione cinese tirata a lucido, la cui invenzione e denominazione si confonde tra gli antichi echi delle leggendarie origini dell’impero del Dragone.

Giunca o sampan (champagne? Come hai potuto indovinare, Tiresia, grandissimo paragnosta?), per me ignoto ignorante digiuno, queste imbarcazioni pari non sono, anche se magari appartengono alla stessa famiglia. Viaggiare a bordo di una chiatta plebea malese, con un manipolo di sgarrupati ribelli o su un nobile veliero orientale, comodamente adagiati su preziosi cuscini di broccato, deliziando il palato con frutta secca ricoperta di miele, con deliziosa frutta fresca ad libitum, ascoltando ammirati le imprese esplorative e le scoperte di quell’intrepido giovin veneziano, nomato Marco Polo?

Le concrezioni del tempo – se non rimosse in tempo – rischiano di bloccare il timone, rendendo ingovernabile il nostro guscio di noce, in navigazione per incontrare il Sublime, per recuperare i frammenti di noi dispersi negli eoni dell’universo; ci credereste? Venezia è stata edificata sopra una magica foresta di alberi incantati che solo i folli, i matti, gli inclassificabili possono vedere, raggiungere e attraversare.

Avvistare sulla linea dell’orizzonte brancolanti barcollanti ma solidi pescherecci, scortati da stormi di stridenti voraci gabbiani – mentre sotto costa candidi eleganti aironi marini immergono il capo per banchettare con molluschi e piccoli crostacei – pronti a imbrigliare nelle reti banchi di pesci, nuvole e sogni: i pescatori, certo, ma credo anche gli aironi.

L’uomo con il Falcone si aggira per la città antica, dal suo guanto di cuoio gli fa spiccare il volo indicando le vie del Cielo, forse si illude di averlo addomesticato, domato il suo istinto di selvaggia libertà; non sa che il rapace fa volare anche lui, attraverso la sua vista acuta, gli permette di scoprire le terre inaccessibili del mondo e dell’oltre mondo, permette ai suoi sogni di librarsi nelle alte quote, senza mai perdere in leggerezza, né inestimabile valore.

Il ragazzo che venne dal Bangladesh sorrideva sempre per celare tutti i dolori, tutte i traumi dei Popoli, perché noi siamo parte del Tutto; sorrideva a ognuno, ma è semplice quando devi attraversare solo l’Oceano onirico, fluido e accogliente, dove non esistono confini, non esistono barriere, non ci sono muri né eserciti armati per respingere la tua vita, considerata illegale clandestina disturbante. Sorridere per celebrare, abbracciare la Vita.

Che voi siate zattera della Medusa o battello ebbro, sperate di incontrare la nona onda – o la settima – auspicate nell’istinto dei vecchi lupi di mare, affidatevi alla Grande Onda; la bonaccia genera solo malinconia, nostalgia, tetro declino.

Non abbiate timore del naufragare:

ci può essere allegria anche in quel frangente; ricomposti i frammenti, mondati dalle zavorre, lo slancio vitale prevale.

Muoversi

C’è chi a 18 anni non sa ancora di essere nato e chi invece scrive Frankenstein, moderno Prometeo.

C’è chi attizza la fiamma della vita e la dona, mentre altri, eminenze grigie emissari della tenebra, affidano ai propri scherani il compito di sopire con ogni metodo tutti i soffi, gli aneliti, gli slanci vitali.

C’è chi lancia razzi nel cosmo per cercare la vita – pretesto ufficiale – c’è chi continua a produrne, venderne, spararne qui sulla Terra contro altri Popoli per sopprimerla.

Il viaggio, solo il viaggio, non la destinazione; del resto, caro Marco il Maltese, proprio tu sai bene quanto il lemma destinazione abbia un eccesso di assonanza con destino; per sfuggire all’implacabile destino – proprio, altrui, casuale – meglio essere perennemente in viaggio, o, senza incomodare Leopardi, allenarsi a trasformare il destino in destinazione.

Non saprei dire se sia taumaturgica, ma meglio navigare nella Bellezza, salpare a bordo della Nave dei Folli – romanzo, dipinto, realtà – gli irregolari, quelli inclassificabili, quelli non addomesticabili, in eterno sfocati nelle foto di gruppo, in eterno irrintracciabili perfino dai mirini elettronici dei satelliti e dei droni.

Come diceva Ciro Ascione (una vaga somiglianza con l’attore Silvio Orlando), cicerone del manipolo di cavalieri e amazzoni post moderni che forse riuscirono a compiere l’impresa di cancellare il giogo televisivo che ammaliava il paese – manipolo che nei periodi di quiete si ristorava a Marzamemi – bisogna muoversi veloci, restare fermi per troppo tempo è un errore, dribbling stretti, triangolazioni rapide e continue, passaggi di prima, bisogna spiazzarli; anche perché – il Poeta ci ammoniva – il nemico dispone dell’idolo consumistico che ottenebra le menti, in una terra abitata dal popolo più analfabeta e dalla borghesia più ignorante del Continente. Curre curre, guagliò, finché hai gambe e fiato non fermare l’inseguimento ai sogni, oltre il quaggiù.

Gli antiinfiammatori sono la morte, gli antiinfiammatori sono la salvezza: converrete anche voi, tra gli estremi e soprattutto nella spiacevole morsa degli opposti estremismi, la capa gira, anche senza sangria. Comunque se non disponi di sangre nelle vene per impostazione genetica, anche la divina sangria è impotente.

Chetati, ma non troppo, sia vigile e attivo il tuo riposo: come dicevano argute e maliziose le sagge Nonne, meglio diffidare delle acque chete, per non ritrovarsi all’improvviso nel centro di una procella. Fortunati fortunelli – cari agli dei – coloro che cavalcano i fortunali e poi lo raccontano in osteria, senza essersi nemmeno troppo inzuppati le gialle cerate d’ordinanza.

Vorrei vedervi cavalcare orde di buchi neri, quelli super massicci (doping cosmico?): fluttuazioni – si dice così, no? – interstellari; sulla bislacca Terra riguardano i listini di borsa: si gonfia a dismisura quella dei soliti parassiti del profitto, si sgonfia fino a scomparire quella dei poveracci. Vorrei davvero ammirare il cimento tra voi e quella coppia rissosa di buchi neri che lassù, in una galassia lontana lontana – quanto accade nell’Universo, coinvolge anche noi – un miliardo di anni luce (fatemi un esempio, calzante) forse collideranno tra loro. Almeno secondo gli astronomi che hanno notato anomale fluttuazioni di luce, bulli spaziali oscuri – i già ‘eccitati’ buchi neri, non gli scienziati – la cui massa combinata equivarrebbe in termini energetici a 200 milioni di Soli. Una pacchia poterne disporre, ma immaginate poi l’entità delle bollette se anche queste fonti ricadessero tra le spire del listino di Amsterdam, ormai più temuto dell’Olandese Volante.

Come scrive sulla terza pagina (terminologia antica, antiquata) del Corriere, Massimo Cacciari: si ha esperienza del mondo per umbras. Per umbras – nel nord est, andare per umbras assume decisamente un’accezione bacchica – si riesce a rappresentare perfino il volo delle cose e i nostri viaggi volanti più audaci, consapevoli che le ombre prodotte dai nostri corpi resteranno comunque incollate al suolo, forse non per colpa o merito della gravità, ma per rammentare a noi stessi la fondamentale lezione: siamo esseri speciali, così speciali da riuscire a solcare anche solo con la mente il firmamento, il Creato, ma restiamo ontologicamente terrestri. Non sono sicuro di avere colto il senso profondo del pezzo dedicato alla memoria dello scrittore Daniele Del Giudice, ma le considerazioni offrono spunti e ispirazioni: aspirazioni, di viaggi voli meditazioni.

Viaggiare per carpire i segreti della felicità; non esistono ricette e/o corsi, la felicità è il viaggio in sé, meglio se raccontato poi con parole sghembe, ruvide su fogli un po’ ingialliti, un po’ increspati, come la nostra pelle, come le nostre vite.

Felici etimologicamente, come suggerisce Maurizio Maggiani:

felix – non il noto felino – latino, dal verbo feo in greco antico, ovvero produttivo, fecondo. Di parole opere pensieri, errori di percorso perché le vere scoperte, anche della felicità, procedono per tentativi.

Fondamentale muoversi, anche per non restare imprigionati in una delle uniche due categorie disponibili in questo III millennio da indietro tutta: sfruttatori, sfruttati.

Riso, del/dal Katai

La Cina era lontana, così lontana che durante il tragitto – poteva durare anni, senza certezza di giungere alla meta – mutava addirittura nome, per diventare il leggendario Katai.

L’orgoglio di fantastiche operaie, api e donne, le biciclette di Shangai ché l’energia motoria umana resta abbastanza ecologica. Lavorare come un cinese equivale a lavorare come un negro? Al netto dei razzismi, temo si tratti in ogni caso di fatiche sovrumane. Quando durante l’infanzia, nelle liti infantili da cortile o perfino da parrocchia, qualcuno ti diceva con tono aggressivo: ma va’ in Cina, la sensazione è che non si trattasse di un augurio per una carriera da mercante e/o esploratore, nemmeno da inviato giornalista a Pechino. Piazza Tienanmen nel cuore.

Il riso abbonderà nella bocca degli sciocchi, ma sono sciocchi che almeno hanno la possibilità di nutrirsi; del resto, come dettava Totò a Peppino, abundantis abundantiam; melius abundare quam deficitare (essere e/o fare i deficitari).

La via era (sarà) della seta, ma il percorso non è certo foderato di velluto; siamo andati negli ultimi decenni con l’arroganza e la superbia tipiche degli occidentali, credendo che il Dragone dei mercati globali ci aprisse quello interno, permettendoci di arricchire i soliti famigerati del profitto; i suoi adepti hanno spesso imparato i nostri metodi e le nostre tecniche del lavoro e poi con la loro forza schiacciante – numerica, geografica, di risorse naturali – e la dedizione totale, ci hanno surclassati nella crudele competizione poco sportiva chiamata pil. Come disse qualcuno, la Cina ha vinto in modo sleale: le lavoratrici e i lavoratori hanno lavorato duro durante l’orario riservato al lavoro.

Da va’ in Cina, a va’ su Selene è un attimo: anche perché percorrendo di buona lena tutta la Muraglia, non è detto che alla fine la bicicletta non riesca a spiccare il volo. Del resto, dai tempi di Melies. abbiamo la stessa ossessione. Ora poi che abbiamo scoperto i pit – non i pit stop, sarebbero necessari all’Umanità, in quantità industriale – ossia le cavità lunari circa 200 nelle quali pare viga un microclima gradevole con temperatura sui 17 gradi e soprattutto in grado di proteggere dai raggi cosmici e perfino dai monsoni meteoritici; al punto che qualcuno già vagheggia di sfruttarle per ospitare in un futuro prossimo (prossimo più per la Luna che per la Terra) torme di cosmo turisti, realizzando il primo albergo diffuso satellitare della storia – anche se, i patiti del telefilm britannico Spazio 1999, avevano immaginato questo e altri mondi possibili molto ante litteram rispetto a questi mercanti fuori tempio e fuori tempo.

Senza riso immotivato, lo sapevate che l’apparente cifra iperbolica di mille miliardi di dollari in realtà costituisce solo l’1% del famigerato Pil planetario? Rowan Hooper ci ha non solo informati, ma sulla questione ha prima ragionato, per poi scrivere un saggio dettagliato, basato sui dati precisi al centesimo, suggerendo come sarebbe auspicabile spendere quella cifra in progetti concreti e mirati per risolvere in massima parte quasi tutti i problemi annosi che affliggono la nostra casa comune; non ci sarebbe così più necessità di attendere le concessioni di istituzioni politiche e/o magmatiche compagnie sovranazionali: sembrano lontane come il Katai le ere di Mamma mia dammi cento lire che in Cina (era la Cina?) voglio andar, o dell’altro motivetto che faceva così Se potessi avere mille lire al mese (il signor Bonaventura con il suo milione era già un personaggio plutocratico, ma senza dubbio saggio e simpatico). Sembrano cose remote, era solo il nostro ieri quotidiano.

Errare humanum est, quanta verità in una piccola sentenza latina: è umano vagare, da quando siamo apparsi nel cuore dell’Africa; non abbiamo nemmeno fatto in tempo ad evolvere un po’, che già avevamo cominciato a commettere errori – sbagliare si può, si deve, meglio farlo da professionisti – però grazie ai tentativi abbiamo acceso fuochi, costruito monocicli; andare a est, come cantava Augusto Daolio ( a Est, a Est) e, come volevasi dimostrare, tornare alla Cina, casella di partenza:

lost in China, persi in Cina, vivendola osservandola con gli occhi del fotografo udinese Danilo De Marco – la forza icastica delle fotografie (Susan Sontag) – un vero viaggio per incontrare persone, per capirne la natura profonda, in un mondo in cui il profitto è l’unico dio a discapito delle parti più deboli (gli uomini umili, gli ecosistemi), il tempo non è solo una concatenazione di eventi da giudicare, ma una dimensione per coltivare dialogo, amicizia, affetto, perfino amore.

Da usare con rispettosa parsimonia, senza riderne.

La gentilezza delle parole crea fiducia. La gentilezza di pensieri crea profondità. La gentilezza nel donare crea amore. (Lao Tzu)

Afasia

Distopia, distopia, per sinistra che tu sia, tu mi sembri una profezia.

Non riusciamo a distinguere quanto accade davanti al nostro naso, o, per i più fortunati, dentro gli orti e i giardini di casa – condominiali vanno bene lo stesso, qui non si discrimina – ci rivolgiamo quindi con immutate fiducia e stima a vari maghi, fattucchieri, imbonitori, però 4.0, tutti autocertificati da lauree, master, anni di apprendistato presso le più accreditate (famigerate?) istituzioni e/o compagnie sovranazionali. Tanto ormai sono un’entità uniforme, senza soluzione di continuità, senza soluzioni per i Popoli.

L’ambientalismo, o il suo simulacro, contemporaneo – secondo voi, sarebbe più opportuno definirlo post moderno? post mortem dell’ambientalismo, magari macabro, ma più veritiero – è un’incomprensibile accozzaglia di bestialità non da bestiario medievale, ma da rappresentanti delle elites, ansiosi di ridipingersi di verde le oscene facciate: dall’ottuagenario caimano olonese che si è arricchito spianando la Natura ovunque e che promette un milione di nuovi alberi ogni anno (ossessionato dal Milione, anch’io, quello di Marco Polo però, scritto da Rustichello il Pisano), alla sedicente fan di Tolkien, che si perde in un vaniloquio su ipotetiche smart cities (bisognerebbe partire, magari, da smart cittadini in grado di votare smart politici o politici smart) non immaginando che perfino i popoli di Nani e Orchi la rincorrerebbero per non aver promesso la Città ideale del Leon Battista o quella del Sole di Campanella; prima che la campanella della scuola trilli tre volte, tu dovrai garantire adeguamento ecologico strutturale degli edifici scolastici. Per chiudere, mestamente, con l’ultracinquantenne adolescente post litteram, illuso da certa stampa radical kitsch di essere un guru – di cosa, di grazia, non è dato conoscere – che organizza faraonici concerti balneari, forieri di profitti economici e soprattutto di stravolgimenti di ecosistemi fragilissimi; quando Cleopatra si spostava a bordo di piramidi e sfingi causava minore danno al meschino ambiente turlupinato.

Ci vorrebbe un’apoteosi, ma di idee; un iperuranio permanente, in Terra. Mi è balzata in capa una apoidea meravigliosa; apo, prefisso greco che indica separazione, distacco, perdita o sua variante successiva che denota vicinanza? Converrete anche voi che la distinzione sarà puntigliosa forse, ma fondamentale. Apoidea, per quanto bizzarro possa apparire, è anche la super famiglia – non è uno scherzo, è cultura, scientifica – cui appartiene la tribù degli Apini, genere Apis, specie (senza discriminazione, ma solo con discriminante) Apis mellifera, non melliflua. Lo scriba virtuale è un cialtrone, ma presterete fede e credito a Linneo; quando saremo riusciti a estinguere anche l’ultima ape, potremo cominciare da soli a intonarci un de profundis.

Tra afa e afasia, correrà una certa differenza: anche staticaMente dovremmo essere in grado di notare, formulare, classificare le differenze – siamo ossessionati dalle classificazione, dalle etichette con le quali incasellare tutto e tutti, per sfuggire al redde rationem con noi stessi (in eoni spazio tempo alternativi, con meno conoscenze scientifiche tecnologiche, sprecavamo meno vita nelle masturbazioni mentali) – vero amico Kakuen? Tu che hai capito quanto sia superiore una carezza, un’opera d’arte e/o dell’ingegno, un sorriso rispetto alla agognata, celebrata, inutile perfezione, Tu che sai parlare con le Persone, alle Persone e con amorevole pazienza dimostri che la ricchezza è coltivare la nostra Umanità. Mentre celebriamo l’importanza e la bellezza dei Fari marittimi, Tu amico mio, sei diventato un Uomo faro: illumini tra le tenebre, suggerisci percorsi nel cosmo, narrando cronache di mondi possibili.

Così non esiste paura della morte, non esiste necessità di sconfiggere la morte (altro volto di ogni nascita e/o trasformazione), perfino i buchi neri nel cosmo assurgono a simboli del cambiamento. Come predica nel vento Vandana Shiva, dovremmo passare in fretta dalle logiche del profitto predatorio, a quelle della cura.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, in cicli perenni:

la morte (forse) non esiste.

Scienza, viaggi, proverbi (ad libitum)

In Artide i ghiacci hanno cominciato a sciogliersi ad una velocità quadrupla rispetto alle previsioni più infauste, ma centinaia di metri sotto la crosta gelida che ancora resiste pare sia presente un ambiente rigoglioso di vita, di vite; chissà se una volta liberato e libero di vagare ancora sul pianeta tutto quel gruppo, quell’accozzaglia brulicante si rivelerà positiva o negativa per gli stolidi bipedi che ancora si illudono di dominare, di controllare ogni singolo accadimento nel mondo.

Abbiamo ufficialmente inquinato tutto, compresa la pioggia che non è più potabile (con i campi coltivati e gli orti, come, anzi, dove la mettiamo?), eppure esultiamo come per un goal decisivo ai mondiali – ah, già, pare non ci riguardi nemmeno stavolta – tutte le volte (almeno una a settimana, ormai) che la Scienza ci comunica di avere individuato una potenziale Super Terra (cosa vorranno mai dire, benedetti ragazzi: si sono laureati ai corsi di marketing scientifico neurospin?), potenzialmente abitabile, però di solito a molte decine, centinaia, migliaia di anni luce dal vetusto Pianeta Azzurro. Forse, passate le follie della villeggiatura agostana, ancora immuni dai deliri natalizi, magari con buone biciclette, gambe solide e fiato da vendere, per il 25 dicembre potremmo raggiungerla. Salvo ingorghi da partenze scaglionate.

Su Marte, rosso pianeta un tempo bolscevico, ora solo impallidito, tracce evidenti di monnezza terrestre: servirebbe un corpo di polizia (pulizia, morale innanzitutto) ecologica del nostro sistema solare.

Sarò il classico dinosauro nostalgico, ma non vorrei facessimo la fine del terrestre che per anni aveva invocato l’arrivo di ET per chiedergli un passaggio su altra destinazione cosmica, per poi pentirsi amaramente e sperare che l’alieno – lui o l’altro? – fosse ancora nei paraggi per convincerlo a riportarlo alla casella astrale di partenza.

Occhio non duole, cuore non vede: proviamo a giocarcela con i saggi proverbi antichi e con il loro rovesciamento surreale.

Potremmo alimentare in modo sereno, compassato, lo scetticismo o l’arte filosofica e legittima del dubbio, senza essere etichettati quali anti qualcosa/qualcuno? Nessuno nega o vorrebbe negare l’importanza della scienza e dei mutamenti tecnologici, resterebbe salutare capire se i ritmi vorticosi degli annunci e dei relativi cambiamenti fruttino reale progresso all’Umanità o contribuiscano a creare, aggiungere, amplificare i danni già perpetrati e non sanabili. Per tacere, delle opportunità e conseguenze etiche che troppi di questi stravolgimenti minuto per minuto implicano e che colgono i bipedi completamente inadeguati, sotto tutti i profili: dal migliore al peggiore, senza esclusione di inquadrature.

Spesso, la carta da giocare è quella sbagliata, o una scartina – con deferenza parlando – spesso, l’ultimo ritrovato epocale (sigh) della tecnica si rivela solo un escamotage (espediente, suona malavitoso di mezza tacca, ma rende più efficace il concetto) per continuare imperterriti nello status quo che dagli anni ’80 a oggi ci ha resi responsabili addirittura di estinzione di alcune specie, di massacro di biodiversità. Gli scienziati hanno sintetizzato un enzima in grado di rendere la plastica biodegradabile, quanto non inquinante non si sa. Immaginare questo enzima mangia plastica come è stato subito definito, fa immaginare – a proposito degli immarcescibili anni ’80 – quel videogioco ossessionante, Pacman. Dalla vita in fondo, non solo dal famigerato decennio del 1900, non si esce vivi.

Quella donna e quell’uomo, gentili, dal fiero aspetto, si sorpresero in perfetta reciproca sintonia a sognare di viaggiare (grazie sempre, Marco Steiner, raffinato autore), si chiesero dunque perché non viaggiare davvero? La decisione fu presa: avrebbero trasformato le loro vite in un viaggio.

In fondo, cos’è un viaggio se non un sogno? Come la vita e viceversa.

Viaggiate sì, in ogni modo, leggeri se possibile.

P.S. Come disse il Capitano Nemo – o quella poetessa solitaria? – se non hai sottomano il Nautilus o l’Enterprise, per viaggiare ti basta un buon libro. A spanne (non il libro, la citazione).

Maschere

Dalla sahariana alla saurana il passo non è breve – importante non sia greve – ma non possiamo escludere il felice connubio.

Non è breve, né semplice imprigionare, imprimere i riti tribali, folkloristici, pagani sulla pagina o nella rete, ma tentare di capire potrebbe coadiuvare i nostri conati di sopravvivenza, il nostro vile annaspare.

Potremmo affidarci al Rolar, nome dal suono quasi onomatopeico di qualcosa che ruota, composto dalle roln, sfere di bronzo, il cui rumore serve ad avvertire il popolo: prepararsi a combattere contro gli spiriti malvagi, mascherarsi per fronteggiarli, esorcizzarli, debellarli; fino alla prossima Rumble in the jungle, rissa nella giungla, perché la vita è anche spesso combattimento. In assenza di un vero Re, capace di danzare come una farfalla, pungere come un’ape, siamo destinati a imparare l’arte di incassare. Almeno.

Forse per questo il vero Belfagor è nato a Sauris, al tempo dei Cosacchi in Friuli, o ere antecedenti, tanto le fonti storiche non esistevano, mentre abbondavano incursioni predatorie e invasioni, non solo barbariche, talvolta con il pretesto della modernità e della civilizzazione.

Quando smarrisci il sentiero, se riesci ad alimentare la fiamma dello stupore e della meraviglia, puoi giungere a scoprire un Eden. Sarà poi tuo libero arbitrio optare per conquistare la cittadinanza o tornare alle vetuste, rassicuranti quotidianità. David e Fulvio, principi delle erbe officinali di Zahre/Sauris, salvano il mondo ogni giorno, in silenzio, con semplicità. Senza fronzoli, senza inutili rivendicazioni, senza esibizionismi, vegliano sulla valle e sui monti, sull’ecosistema indigeno e sulla biodiversità, coltivando non solo erbe e fiori, ma bellezza. In compagnia dello sparviero, regale signore dei cieli e della cagnolina Rabbi si prendono cura dell’armonia, principio primo dell’universo, accogliendo e ritemprando viandanti stanchi e smarriti.

L’acidità, la temperatura e l’inquinamento dei mari terrestri sono aumentati in progressione esponenziale nell’ultima secolo, molto più di quanto accaduto nei millenni precedenti, eppure, non avendo esperienza quotidiana del fenomeno, fingiamo che questo non esista o non sia un problema urgente che ci riguarda da vicino. Come scrive l’autore Francesco Piccolo, le pratiche per salvare il pianeta sono faticose, le cattive pratiche ignave cui siamo abituati sono comode e semplici. Nessuno finora è mai stato incriminato per ecocidio, né per deturpamento del futuro.

Per scongiurare l’olocausto globale, temo – senza eccedere, né indugiare in pessimismo cosmico – non basterà neppure la maschera del Belfagor saurano.

Aggiungi un titolo (e un posto al desco)

Non indugiare mai con lo sguardo sulle fiere pupille di un qualche predatore, non approfittare mai della proverbiale bonomia di un marsupiale, pacifico e vegetariano, nelle intenzioni.

La conosci la storia del nipponico a Cartagena? Neppure io, chiedo in giro con curiosità per colmare la mia lacuna. C’è sempre qualcuno pronto ad alimentare di nuovi aneddoti la leggendaria rivalità scacchistica tra Alechin e Capablanca, ma anche in questo caso – la necessaria virgola, aggiungetela voi – arduo distinguere tra invenzioni letterarie e resoconto storico.

Potrei, dovrei consultare Fabio Stassi e Paolo Maurensig, loro sì autentiche fonti, preziose miniere di gustose rarità storiche, immaginifiche; munifici dispensatori di saperi e di racconti, di storie che come tessere del mosaico, con certosina cura, perizia, pazienza vanno a comporre il complicato mosaico della Storia.

Aggiungi un titolo – autentico o virtuale – al tuo curriculum, tanto tra distopie multiversi metaversi (delle Scimmie?) sotto sopra (in primis, la Terra degli Italopitechi), la lista delle eventuali competenze e delle medaglie, vale come il due coppe e comunque meno della lista della spesa, quella delle sane, virtuose mai virtuali massaie dei tempi che furono. A proposito, l’ultima della scienza, quella con la acca, però muta (d’accento e di pensier): forse il Tempo, nel senso di Kronos, non esiste. Una scoperta, come definirla, vagaMente datata: Lui poi cosa ne pensa? Mi sta bene, a patto che tutta la società globale venga ridisegnata, ex novo, ex fantasia, considerato che al momento ogni singolo aspetto, anche il più infimo e/o intimo si basa proprio sui granelli di sabbia dentro la clessidra. Il tempo è una dimensione, qui presso il Pianeta Terra, una convenzione, una circo convenzione per ingannare bipedi limitati e mortali, che s’illudono d’essere onnipotenti, eterni.

Partire, partire sempre e comunque; vascelli alla rada in porto, con scafi integri e mele (vele) perennemente ammainate sono uno spreco, un peccato mortale: festival degli Hobbit – in contumacia dei rappresentanti della Terra di Mezzo, assenti per protesta – a Edimburgo, una qualsiasi cerimonia dentro giardini nipponici o sul Mar del Sol Levante. Levati da davanti ché mi oscuri il Sole e l’intelletto.

Chi mi ama mi segua; fu così che mi incamminai da solo. Ah sì? Non mi tange, correrò da solo. Bravo, corri e non fermarti. Non pensare a noi, ce ne faremo una ragione, di vita.

C’era una volta una sottomarca di Rodomonte (quelli che a parole spaccano montagne, nella realtà, altro), al bar del ‘Ciambellino‘ (rivale del Ciambellone) diceva che un tempo, in ambienti importanti, lo chiamavano drago; come negli stereotipi peggiori e più frusti, ne raccontava 6 o 7 alla volta, di imprese immaginarie e spesso gli astanti restavano a bocche così spalancate, da dimenticare di trangugiare la solita quantità di vinaccio dozzinale; quando un giorno qualcuno cominciò a porgli qualche domanda più specifica sulle sue presunte avventure mirabolanti, prima glissò, poi si eclissò, non senza sibilare una sorta di terribile vaticinio: senza di me, l’apocalisse – non quella etimologica, quella catastrofica. Speriamo sia almeno un apo calesse.

Ci sarà ancora un uomo in cima ad una duna, pronto a stagliarsi contro il cielo notturno, pronto a diluire la propria sagoma avvolta in una morbida veste di lino contro una gigantesca Luna dorata, pronto a scrutare l’orizzonte, capace di dire (l’uomo, non la Luna, né la duna) ai propri simili: non la carenza, ma gli sprechi e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, condanneranno il genere umano all’estinzione.

Hiroshima e Nagasaki del mio cuore, siete lontane, geograficamente, ma vicine alla sede dell’anima; ancora troppo attuali. Avremmo dovuto dire da quei giorni terribili, tutti i Popoli della Terra, mai più, sul serio. Non per la foto ricordo dei capi di stato o per l’ennesimo fatuo documento d’intenti ipocriti. Possiamo farlo ora, subito:

abolire la guerra, senza se senza ma, come chiede Emergency, la creatura di Gino Strada.

Per tutte queste ragioni, aggiungi tu il titolo e magari un posto al tuo desco.

Voci e memorie

Voci qui, e nel contempo, altrove.

Voci dentro, voci fuori, fuori campo, fuori fuoco.

Presenti, oniriche, metafisiche forse, voci portate dal vento, disperse dalle lunatiche maree.

Una voce poco fa, una risata come fosse pianto, un pianto come fosse risata. Labili confini, menti labili, labili sentimenti.

Nulla è più ingannevole dell’esperienza sensoriale, nulla è più ingannevole della memoria, fabbricante e levantina spacciatrice di reminiscenze false, di epifanie immaginarie, di vite mai vissute.

Non confondere mai un simposio campano – siculo o in Apulia – con uno campale, il secondo potrebbe risultare assai indigesto; c’eri forse tu, con occhi e taccuino e penna, a Canne? Fosti tu testimone diretto degli eventi della battaglia? Tra i corpi martoriati, nella polvere e nel sangue, raccogliesti forse tu le ultime impressioni, gli ultimi sospiri di quei soldati? Parlasti direttamente con il generale Annibale per farti spiegare per i tuoi (e)lettori i segreti della tattica bellica che gli permise di annientare l’esercito romano, disponendo un numero di soldati pari un solo terzo rispetto a quelli del potente, temibile, quasi imbattibile nemico?

Tra la alata vittoria e l’amara, velenosa sconfitta c’è sempre un dettaglio, un quasi (di troppo o in meno), un imprevisto imprevedibile che manda a catafascio gli esiti dati per acquisiti.

Greca nascesti a New York e debuttasti a Verona nei panni della Gioconda, la tua voce sublime a tutti i naviganti, a tutti i terranauti intenerisce il core, a ogni latitudine e longitudine; greca nascesti a Lesbo e la tua voce ultra millenaria, mai udita, mai incisa su supporto, continua a ammaliare, stregare il mondo.

Lo sceriffo spaziale James Webb ne ha scovata un’altra. Certo, difficile stampare Annales fotografici del cosmo se le foto epiche giungono a cadenza quotidiana; questa volta è la Galassia Ruota di Carro – io ero ancora fermo all’omonima pizza in Costiera Amalfitana – a subire l’onta di finire impressa, immortalata dall’obiettivo curioso, impiccione, paparazzo del super telescopio Nasa. Osservandola meglio, somiglia in modo sinistro e notevolissimo ad una certa astronave guida di un famigerato esercito alieno, pronto ad invadere la Terra. Memorie da un futuro antico.

Mi trovassi a Palos oggi, chiedere alle mappe di Gogol il percorso migliore per raggiungere le Indie – o forse gli Indiani – magari evitando le tratte con pedaggio incorporato. Le voci nella testa non tacciono mai, al limite delle colonne di qualche eroe mitologico, sussurrano.

Questa Europa sconosciuta, questa Europa irriconoscibile nelle voci e nelle memorie di chi la edificò, dalle radici in poi. Aliena e nemica perfino per Antonio Salieri, il rivale di Volfango (reale o immaginario?): a Milano, anno di grazia 1778, fu grande festa, grande celebrazione per l’inaugurazione del Teatro alla Scala con l’opera firmata dal compositore italiano, ma cittadino della Serenissima, nonché nobile docente di musica presso la corte viennese, intitolata Europa riconosciuta. Europa mia, per antica che tu sia, non ti riconosco più. Colpa mia?

Caro Caetano Veloso, il 7 agosto saranno 80, ma per non subirli hai pensato bene di restare un raffinato sognatore musicale; sognatore, non dormiente, perché se talvolta la ragione è preda della sonnolenza, il male non riposa mai e per avere a disposizione sempre la giusta luce, i colori giusti per sconfiggerlo, sarebbe meglio, come tu fai, restare attenti osservatori del proprio paese, collocato nella più ampia visuale dell’universo mondo.

Asservire le voci e le memorie della scienza – autentica – e dell’università al profitto, al vuoto utilitarismo del mercato equivale a condannarle a morte; dovrebbero restare i luoghi sacri del pensiero critico; per preservarle servirebbe una indomabile jena. Forse per questo a Jena, patria di Hegel, è sorta la cittadella della geoantropologia, grazie al prestigioso istituto di ricerca Max Planck. Il direttore Jurgen Renn ha spiegato che se l’Umanità e il Pianeta che la ospita vogliono sul serio coltivare speranze concrete di futuro dovranno cominciare a affrontare le questioni più spinose con un approccio integrato di diverse discipline – dalla geologia, all’antropologia, per indicare le principali – per capire, quantificare, l’impatto che i Sapiens hanno prodotto sulla casa comune, dalle origini al pieno Antropocene.

A proposito, sarà bene rammentare che il famigerato, sedicente bipede è nato in Africa circa duecento millenni fa – un’inezia – mentre, per citare una specie molto più antica (dal blasone più nobile?), lo storione, dovremmo percorrere a ritroso (ammesso abbia senso) 200 milioni di anni. Impallidisci dalla vergogna, uomo. Cosa fai, adesso? Lo istorione da avanspettacolo? Il giullare da fiera campagnola?

Dodici anni fa, il povero storione era già indicato tra le specie a rischio d’estinzione; oggi, con lo sfruttamento indiscriminato delle vie fluviali, con il commercio senza limiti delle sue prelibate uova e con l’imperversare della pesca di frodo, stiamo quasi per celebrare l’addio all’impresa dell’ultimo storione, come ammonisce dalle pagine della Lettura, Telmo Pievani.

Come nelle voci e nelle memorie del passato che non finisce mai di passare e pesare, come nei peggiori, più banali, dozzinali, sciatti polizieschi, alla fine il colpevole è sempre il maggiordomo;

in questo caso, il maggioruomo (quello che si crede signore e padrone), quello a due zampe, che reggendosi in verticale ha perduto la coda e il lume della buona ragione.

Sarebbe bellissimo, se per una volta, con un inaspettato colpo di coda fantasma, sovvertisse il finale, tacitando voci e memorie fasulle.

Lucciole

Pagina delle mirabolanti lucciole, quali lanterne.

Miracoli della Natura, potrebbero aiutarci a percorrere meglio i nostri sentieri, o almeno a individuarli e sarebbe già un importante primo passo.

Avrete certo attraversato anche voi una foresta pluviale malese, immersa nel buio della notte, vi sarete certo stupiti anche voi per l’ineffabile spettacolo offerto da migliaia di maschi di lucciola che in contemporanea si accendono e con messaggi luminosi – alfabeto Morse – praticano un articolato rituale di corteggiamento; la Ville Lumière al confronto appare un antico villaggio quasi tetro e abbandonato.

Può darsi ch’io non sappia quel che dico, scegliendo te, una Foresta per amico.

Eppure dovrebbe essere così, dovremmo esserci arrivati da soli. Tutto il mio regno, tutto il nostro mondo virtuale, alternativo, metaverso che sia, per una foresta, ma grande, vera, possente, a grandezza naturale.

Sogno o son mesto? Sarei mesto, senza sogni. Eppure, anche il sonno e l’universo onirico, in apparenza fatti naturali e connaturati all’uomo, inteso quale organismo, possono essere fatti culturali la cui descrizione e valutazione muta a seconda delle ere e delle temperie sociali, antropologiche, perfino religiose. Karoline Walter ha studiato, indagato sull’argomento e ne ha tratto un saggio: Storia del sonno, tra letteratura e scienza. Anche letteratura, anche arte, cultura ad ampio spettro per capire che il sonno proprio come l’uomo, muta nel corso della storia. Il sonno della ragione genera mostri, ci dice Goya attraverso un suo formidabile e inquietante dipinto: la ragione dormiente può essersi arresa, oppure, al contrario, la ragione che si esalta, può sfociare in perniciosi deliri di onnipotenza. Conforterebbe forse rammentare che se in alcune fasi del mondo il sonno è stato considerato addirittura un peccato, nel campo della contemplazione e del misticismo, esso rappresenta la forma più pura e alta di conoscenza di Dio e del Creato.

Lo so io, lo sai tu? Mentre ci trastulliamo con le sciocche ipocrisie della transazione ecologica e con la famigerata green economy, nata vetusta e levantina, la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto i livelli di 4,5 milioni di anni fa, quando i mari erano più alti da 5 a 25 metri rispetto a oggi. La deforestazione dovrebbe essere inserita in una Costituzione planetaria quale crimine contro la biosfera e contro l’Umanità. Per scongiurare un grande disastro, dovremmo aggrapparci a grandi foreste e non si tratta di una cospirazione ordita dalla lobby degli Ent, il popolo degli alberi senzienti, immaginato dal Patriarca Tolkien.

Lo sapevano, grazie a saggezza e osservazione, gli Antichi: le foreste sono le vere motrici del clima e le fantastiche custodi della memoria della Vita. Parafrasando Dario Fo e Enzo Jannacci, sempre verdi dovremmo stare, la clorofilla fa’ bene al ricco e al cardinale, fa’ bene a tutti se preserviamo la fotosintesi (e chi ha la capacità di produrla).

C’è sempre luce in fondo ai tunnel, bisognerebbe capire le fonti; i popoli dovrebbero superare in fretta la moderna inadattabilità al reale, tornare a guardarsi allo specchio in modo anche ruvido, disturbante. In caso contrario, per il Pianeta la soluzione sarà semplice: foreste ovunque, anche in Artide e Antartide;

con le lucciole della Malesia a illuminare il governo del mondo risorto.

Polpo

Pagina del racconto; si fa presto a dire: descrivi, racconta, scrivi.

Il racconto è dolore ma il silenzio è peggio. Cito male, citofono peggio a Eschilo, ma i veri giganti del pensiero di solito sono umili e comprensivi.

Se dovessi citare un moderno, contemporaneo gigante del pensiero citerei il Polpo: non si tratta di errore di battitura, di lettura o gratuita provocazione. La complessità della struttura cerebrale del polpo, la complessità e la raffinatezza delle sue capacità cognitive sono straordinarie, tanto da renderlo molto più simile a certi vertebrati, bipedi compresi (lui, il polpo, sarà d’accordo?), rispetto alle popolazioni di invertebrati, cui appartiene.

Ci attendono due mesi di ‘nani e ballerini’ – senza offese, ma solo come citazione storica – due mesi brutti, tra afa, roghi e soprattutto falò delle sciocchezze e delle oscenità, ormai consueti nelle famigerate campagne elettorali italopiteche. Per questo, se un Octopus vulgaris, scendesse in campo – o meglio, salisse in terraferma – per candidarsi con un solido, intelligente, lungimirante progetto politico, gli accorderei senza esitazioni tutti i miei voti e tutte le mie urne.

Del resto, quando attempati scorridori, occupanti perenni dei calcinati palazzi del potere, blaterano ai quattro venti di piantumazione di un milione (come si trattasse poi di una cifra mostruosa) di alberi quale promessa funambolica, mentre indicano il perdurare di un sistema economico fossile tutto incentrato su trivelle selvagge, inceneritori di quartiere, rigassificatori in ogni porto e/o simulacro di approdo, non ti resta che piangere e compiangere il Da Vinci e poi buttarti a pesce, come corpo morto sul partito del Polpo: estrema ratio, estrema ciambella di salvataggio.

Abbiamo un grande occhio nel cielo ed è cinese: il più grande radiotelescopio del Mondo, del nostro mondo. Anni fa, altri astronomi captarono misteriosi segnali da Proxima Centauri, ma poi con rammarico dovettero ammettere che erano interferenze generate da guasti delle sonde in servizio nel cosmo. Oggi, quelli registrati da Sky Eye – Eye in the Sky – con scarsa originalità, vengono attribuiti alle solite, immancabili ma mai palesate, civiltà aliene. Ecco, se davvero sono civili, forse non hanno alcuna intenzione di interagire con noi; anche un recente romanzo a fumetti lo ha raccontato molto bene: la nostra civiltà (umana) è sopravvalutata, soprattutto se pretende individui isolati, nevrotici, consumatori compulsivi, cittadini passivi, acritici. L’eventuale marziano a Villa Borghese, in questo mondo dopo, si ritroverebbe attonito ad esclamare: cosa ci faccio qui?

Il marziano, il Polpo, il bipede sarebbero in grado di comunicare tra loro? Il professor Ludwik Zamenhof risponderebbe in modo affermativo ed estrarrebbe da una tasca un certo manuale da lui stesso redatto, un vocabolario di Esperanto – esperanza de paco (non Paco il simpatico oste messicano, ma pace in Esperanto) – convinto e convincente che quando si è propensi, pronti, fautori di dialogo, i ponti e i sentieri si materializzano di colpo, davanti ai nostri piccoli occhi, mortali alieni o cefalopodi che siano.

Qualche volta però sorge, come fosse un’auretta assai gentile, la voglia naturale di ribellione, la voglia di assaltare i forni, anzi, no – viva i Fornai – certe caserme Moncada, per puro, cristallino, indomito istinto di sopravvivenza: rendendosi conto con sgomento che bisognerebbe fare da sé, mancando da un discreto numero di anni un comandante disponibile (lasciate in pace Ernesto, non è certo l’icona violentata dal furbo marketting capitalista per vendere lattine, magliette, spillette).

Quando si saldano gli interessi della scienza – con fiamma ossidrica – a quelli dell’industria e dell’invadente politica, per le persone sono guai. Chiedetelo agli abitanti di Seveso, a chi si ammalò di tumore, alle migliaia di evacuati, causa diossina. La pelle dei bambini bruciava, come l’erba dei campi, di colpo inariditi, gli animali morivano. L’unica colpa di quegli sventurati, ritrovarsi vicini di casa della Icmesa. Come sempre poi fu tutto un florilegio di colpevoli silenzi, omissioni colluse, mistificazioni, ipocrisie, trionfo dell’ignavia. A proposito di alberi, solo un grande pioppo rimase in piedi vicino alla fabbrica della morte, l’unico essere vivente e l’unico testimone meritevole di fiducia e di affetto. In seguito – sempre dopo, purtroppo – arrivò la direttiva europea sui rischi delle attività industriali, ma su quella terra di nessuno i cittadini riuscirono a impedire che fosse edificato un inceneritore (da non credere) e soprattutto che sopra le vasche delle discariche sorgesse quale memoria, monito, speranza il Bosco delle Querce, 40 ettari di terreno, ricoperti con 45.000 meravigliosi alberi.

Votiamo il Polpo, aspiriamo a diventare il popolo del Polpo:

ha tre cuori – dell’intelligenza, abbiamo detto – è flessibile, non presenta spigoli, vive più all’esterno che dentro se stesso;

così lo descrive lo scrittore Fabrizio Caramagna, ricercatore di meraviglie:

è un serbatoio di forme, movimenti, possibilità, è un continuo divenire.

Un candidato imbattibile.

P.S. poetico

Un polpo nel vaso in fondo al mare:
il sogno è effimero,
sotto la luna d’estate.
(Matsuo Basho)

Lunari Primordiali

Non mi chiamo Astolfo, credo.

La discussione lunare sul nostro sbarco – reale o inscenato – su Selene è peregrino, ormai.

Scevro di arroganza, al netto della presunzione, sul nostro argenteo satellite, mi reco ogni giorno da quando sono nato e senza necessità di conficcare un razzo in uno dei suoi magnifici occhi. Più ecologico di così.

Siamo ossessionati dalla Luna, era meglio quando ci limitavamo a farci stregare. Da Lei.

Andare di nuovo verso la Regina delle Maree – cosa sono in fondo 300.000 km al cospetto dell’eternità? – sbracare (intendo proprio sbracare) sul volto nascosto – non per colpa sua, sia solare questo dettaglio – per appurare: se sia possibile rintracciare vita; se sia possibile sfruttare giacimenti di materie prime, seconde, anche di seconda mano vista l’arietta cosmica che tira; appurare se ci siano giacimenti (falde), ma d’acqua, al momento molto più utili di quelli fossili, molti più rari delle terre rare; verificare se sia possibile quindi realizzare anche lassù giardini pensili, giardini all’inglese, ammettendo che in realtà l’arte e la cultura dei giardini è prettamente italiana, toscana in primis: brevettiamo?

Ci sorprenderemmo se spuntassero i Meganoidi, ci dovremmo sorprendere di più constatando che mentre il costo della vita – ma una sola vita quanto vale, al di fuori della rete virtuale del mondo dopo e dei videogames anni ’80? – sale vertiginosamente, bollette energetiche comprese, mentre un oscuro banchiere chiede al popolo se preferisce burro o cannoni, abbiamo realizzato il record il primato il “top plus ultra” delle esportazioni di gas: però, se non obbediremo ai diktat guerrafondai (ciao Costituzione!), l’inverno lo trascorreremo all’addiaccio – non Ajaccio – al freddo e al gelo, invidiando follemente la piccola fiammiferaia. A proposito, da adulta sarà poi diventata una spietata manager di qualche multinazionale?

Condannammo il grande Nolano al rogo, oggi Lui si vendica – idea sciocca, ne ‘convergo’ – innalzando oltre ogni limite la temperatura terrestre, perché la vendetta è una prelibatezza che si gusta meglio flambé. Con sorbetto finale, digestivo.

Se la Luna conserva una faccia nell’ombra, non lo fa per emulare Giano, né per incoraggiare la tipica doppiezza umana; inutile indagare, avrà le sue ottime regioni e ragioni. Legioni, lo escluderei.

Pompidou o Yuppi Du, questo è il dilemma: se hai coraggio, opta. In un momento della transizione umana così opaco, ci sono ancora gesti che fanno respirare cuori e anime. Non è un caso che i protagonisti siano due giovani ciclisti, perché gli eroi, quelli veri, sono sempre nel fulgore della gioventù, belli e audaci, in sella ai loro destrieri, cioè, velocipedi. Vingegaard e Pogacar – il primo, in maglia gialla, attende il rivale, in maglia bianca, ruzzolato a terra, durante una discesa a rompicollo. Bello buono utile, gli Antichi lo sapevano: per tacere delle Alpi e dei Pirenei, habitat perfetto per duelli o anche trielli, tra uomini e natura, calati negli elementi e nei colori primordiali, selvaggi nelle sfumature migliori e più ampie – anche, di vedute – possibili, quindi immaginabili; e viceversa.

Una Luna rossa gigantesca che spunta alle spalle di un monte nero; prima o poi ci rialzeremo dai nostri bassifondi, ma godiamoci spettacoli di ineffabile bellezza che non meritiamo. Il Voyager 1, sonda spaziale in viaggio da 45 anni, è giunta a 23,3 miliardi di km dalla Terra, oltre molto oltre le Colonne d’Ercole del nostro sistema solare; una distanza inconcepibile per la mente, una distanza che conferma quanto ci voglia ‘nasa’ per riuscire a orientarsi negli abissi cosmici. La sonda, forse stanca, forse provata dall’anzianità di servizio, ora ci invia dati che gli scienziati giudicano totalmente incongruenti, come se vagasse in stato confusionale; oppure, ipotesi alternativa, quelle civiltà aliene che ci illudiamo ostinatamente di riuscire a contattare in qualche modo – per convincerle a salvarci da noi stessi o per rifilare loro il nostro ciarpame? – si stanno facendo giocose beffe di noi.

Aria Terra Acqua Fuoco: i quattro elementi fondamentali si stanno ribellando; migranti terrestri sulla Luna per sfuggire alla furia filosofica e fisica di Gea?

Auto confinarci in una riserva extra planetaria – Popolo Navajo, dove sei? – come fosse una colonia penale, per mondarci dalle nostre responsabilità? Mentre una giovane Principessa tenta di riportare armonia nelle contrade, in sella all’equo e giusto equino nomato Opale.

Nella riserva, vagando per arrojo aridi, alla ricerca di Lunari da sbarcare dai fidi fidati intelligentissimi muli, sperando nella saggezza millenaria degli Anasazi:

perché solo la pazienza del vento, reiterata per eoni, riesce a trasformare perfino le crepe nella roccia in nuove sorgenti.

In tensione

Vorrei diventare un provetto inseguitore del Sacro, anche mentre dormo, come insegnava il Saggio.

Vivere in tensione – nell’accezione (anche, eccezione) migliore – verso il sublime, liberarmi da orpelli e catene (meglio di Houdini), sublimare me stesso fino a rendermi pura essenza, in volo verso il Tutto, verso l’Ente primigenio universale.

La Bellezza e la Poesia possono aiutare, una messa laica cantata e mistica possono ispirare e indicare la strada; se vi capitasse di incrociare i sentieri degli artisti Amara e Cristicchi siate propensi e predisposti a condividere molti passi insieme a loro: prima e oltre la loro grandezza artistica sono grandi anime. Hanno davvero recepito il messaggio, hanno visto la vera luce, quella senza ombre, hanno capito che siamo tutti piccoli ruscelli senza fonte, in questa vita terrena, ma hanno imparato che accettando questa nostra natura di pulviscoli cosmici, questa nostra transitoria finitezza, possiamo evolvere perché se ontologicamente siamo emanazione dell’Unico principio, possediamo dentro di noi la predestinazione all’eterno, in qualche forma e/o dimensione. Una piccola scintilla che attraverso la nostra evoluzione e liberazione dobbiamo aiutare a diventare luce perenne. Con grazia, leggerezza, attraversando beatitudini sublimi.

Dalle magiche rive del Lario alle torride strade del luglio francese, in sella ad una formidabile bicicletta perché Lui era formidabile, in tensione verso i suoi sogni da bambino: il destino è per motto popolare cinico e baro, qualche volta anche nella realtà, ma Fabio Casartelli, al pari di Marco Pantani, vive sempre nei nostri cuori: oggi pedala libero sui sentieri dell’Universo.

Chiedi a una ragazza di 15 anni di età, chiedile – a lei e a tutta la sua tribù di amiche e amici – chi fosse Mafalda e soprattutto il nome del papà della buffa, spigolosa bambina dai riccioli neri come carboni ardenti; chi fosse e come per decenni con il suo fulminante sarcasmo sia riuscita a denudare le debolezze, le miserie del mondo dei presunti adulti e fustigare tutti i vizi peggiori della loro sedicente evoluta società. Grazie Quino.

Avete mai osservato quanto siano belle le Tigri del Bengala sdraiate – non in tensione – in rilassamento felino accanto a ruscelli e pozze d’acqua nelle jungle più fitte? Se smettessimo di devastare specie viventi prima del nostro acefalo interventismo, se smettessimo di attentare alla biodiversità in nome del feticcio chiamato sviluppo, forse anche la tensione del Pianeta azzurro cesserebbe.

Tensione corporea, la medesima di Michelangelo Merisi – sempre lui, il Caravaggio – mentre divorato da una insana febbre (non solo fisica, fisiologica) moriva abbandonato sulla spiaggia di Porto Ercole; si era imbarcato a Malta, dove sopravviveva da auto esiliato, per sfuggire alla sedicente giustizia dopo i guai combinati a Roma e Napoli, con la speranza di tornare nella Città Eterna, per ottenere dal Papa il condono dai suoi peccati capitali. Per meriti artistici, ma la Vita e la società degli uomini, forse, non funzionano così, forse, semplicemente, con o senza tensione costante, non funzionano.

Tensione, alta tensione in un mondo che considera pandemie e guerre benedizioni per il trionfo del pil (finché ci sono, c’è speranza…), per conferire sempre più i pieni poteri al mercato globale sovranazionale di stampo liberista. Le vittime umane sono poco meno che incidenti di percorso sull’altare del profitto.

Tremate, empi – non perché lo scrive un indegno allievo dello scriba – ma vuoti dentro: vi credete invulnerabili, ma fino alla liberazione dalle passioni velenose sarete condannati a tornare: ancora ancora ancora e non sarà per raggiunto miraggio dell’immortalità (enormemente sopravvalutata).

In tensione evolutiva, per tramutarmi in un chicco di grano: dentro, tutti i segreti dell’armonia e della bellezza universali.

Dentro, l’innata capacità di nutrire i Popoli della Terra.

Presente remoto

Un milione di anni fa, o forse più.

L’incipit della sigla di chiusura della serie nipponica animata Ryu, ragazzo delle caverne resta bellissima, attuale, ma andrebbe forse aggiornata allo stato delle cose.

L’Umanità – ciò che ne resta – dispone di un nuovo potentissimo telescopio fotografico, capace di scrutare negli abissi oscuri dell’Universo per intercettare, recuperare, immortalare il presente che ci siamo lasciati alle spalle. Per ammirare la bellezza inquietante, ostile, poetica del cosmo distante da noi 4,6 o financo 5 – perché no? mi voglio rovinare – miliardi di anni ‘fu’; le luci, i colori di corpi celesti che non sono più tra noi fisicamente, ma che hanno lasciato tracce indelebili nella memoria storica, sulla lavagna della Volta. Uno alla volta, per carità: fatico a riesumare i fatti degli ultimi, recentissimi 365 giorni, immaginate il resto; il resto mancia, il resto del carlino oppure un decino di rame per acquistare un romanzetto stampato grossolanamente su carta riciclata; chissà mai che nel racconto popolare di un viaggio di uno o più eroi, si possano trovare se non le origini, almeno le ispirazioni.

Nei momenti peggiori, nei momenti oscuri, non di eroi ci sarebbe bisogno, solo e sempre di buoni esempi: fate quello fanno e non quello che vi predicano aedi di sventura, mercenari dei gangli del potere.

Francis Drake – lui sì, un vero drago dei mari – a bordo di un guscio di noce, con una ciurma di disperati ma cugini di primo grado dei sette mari, per primo realizzò l’impresa di circumnavigare questo nostro piccolo, pazzo, meraviglioso Mondo.

Attendiamo il primo circense, cioè, circumnavigatore del Cosmo, garantendo – almeno a lui – un salario non minimo, ma dignitoso equo commisurato alle esigenze della vita universale.

James Webb che soppianta e costringe alla pensione il vecchio Hubble ci costringe ad un ulteriore bagno di umiltà: credevamo di essere pulviscolo però geniale, invece forse siamo anche meno. In ogni caso, anche il potente e sofisticato Webb, per farsi lanciare in orbita, ha avuto bisogno necessità limite di appoggiarsi alla sua guida e musa Arianna.

Il Poeta scrive che il bianco e il blu sono mari, isole, natanti: le isole e le coste offrono riparo, riposo, ristoro ai marinai, ma una vela, piccola o grande, per sua intima vocazione e natura, prima o poi, continuerà a scegliere di navigare, anche controvento, anche contro corrente.

Nel presente remoto tutto accade nello stesso istante, senza soluzione di continuità (forse, senza soluzioni); la presa della Bastiglia, l’attentato a Palmiro Togliatti vicino a Montecitorio ma con la guerra civile evitata dalle imprese di Gino ‘il giusto’ Bartali al Tour, il debutto sul piccolo schermo di mio fratello Calimero, il ritrovamento grazie ai prodigi delle scansioni di un autoritratto di Van Gogh – Van Gogh, Vincent Van Gogh! – dietro una tela appartenuta al papà di Ian Fleming, padre letterario di James Bond.

Oppure credere di riuscire ad addomesticare e cavalcare l’Orca nel giorno dedicato alle sue celebrazioni; non un’orca qualsiasi, ma Horcynus Orca quella di Stefano D’Arrigo, unico capace di rivaleggiare in scarsa leggibilità con James Joyce: Oh, giovanotti, ma ve lo volete mettere in testa che quella non è una quilibet qualsiasi, ma è l’orca, orca orcinusa, la Morte in una parola, la Morte marina? Ma sul serio, sul serio pensate di poterla fare fessa, di incavallarla? Ma sul serio, sul serio pensate di poterci qualcosa, di influirvi, di cambiarle il principio?

Questo presente remoto logora più dell’inseguimento ai sogni, più delle utopie che non tramutiamo mai in progetti.

Questo eterno presente remoto, però iper definito nell’immagine, iper pre determinato dall’algoritmo supremo, è come un impietoso confronto tra il cinema muto in bianco e nero e quello del mondo dopo, infarcito di improbabili colori, effetti forse speciali, però algidi:

100 minuti negli ultra versi virtuali non valgono una sola, romantica dissolvenza nel seppia.

L’estate più bella del Mondo

Le bandiere: finalmente sventolate, lasciate libere di garrire al vento, senza più vergogna.

La gente in piazza, fiumane inarrestabili di persone che nell’azzurro torrido eppure fresco, sciamavano festanti, iridescenti.

La gioia vera: assaporata fino in fondo, dal primo all’ultimo morso, in quanto improvvisa, inaspettata, imprevista.

L’estate, la più fulgida e lussureggiante delle stagioni, ma anche la più ingannevole: pare possa durare in eterno, ma finisce in fretta – come certi giochi certe illusioni certe passioni divertenti – fugge e lascia sovente sul terreno frutti amari, sorprese spiacevoli, effetti deleteri. O rammarico, preferibile, o malmostoso rimpianto.

Non a caso, Just an illusion degli Imagination fu uno dei dischi più acquistati durante quell’anno formidabile (per tacere di Der Kommissar, Paradise, Reality).

Il peccato più grave collegato alla gioia resta sempre l’incapacità di riconoscerla, di goderne, di rendere pan per focaccia con gratitudine, a coloro, o allo stesso destino che anche solo per un istante hanno voluto graziosamente concederla.

Fu giusto, fu un diritto sacrosanto non considerare il ponte chiamato passato, né quello da edificare, conosciuto ancora oggi come futuro (sempre in divenire, di là da venire), per ballare insieme sulla piazza solida, ma finita, del presente. Fu lecito abbandonare all’oblio il piombo e il sangue del decennio precedente; fu bello volare con le biciclette nel cielo notturno stellato grazie al piccolo amico venuto dallo spazio, manifestare a NY in 750.000 contro le armi nucleari, applicare per l’undicesima volta l’eccezione del minuto di 61 secondi – aggirando la precisione dei cucù elvetici.

Fu giusto quell’urlo contro il cielo, urlo più famoso di quello di Munch, grazie al quale ci riscattammo in toto da noi stessi, credendo per un solo secondo – quello in più, mai esistito – che con la magia della voce saremmo rimasti così, giovani dentro e fuori, giovani dentro quell’estate, in eterno.

Le mani vigorose che innalzarono al cielo madrileno il trofeo erano le sue, quelle del Capitano silenzioso, ma erano – anche – le nostre e quelle dell’Artista che le immortalò sulla tela con le pennellate indelebili della Storia collettiva; le braccia che cercavano altre braccia erano le loro – bravi ragazzi come noi, uomini non replicabili, come Gaetano – che ci avevano creduto e si volevano bene, ma erano anche quelle di un popolo senza identità comune, di genti popoli torri campanili correnti per una volta popolo unico: è stato un attimo, ma è stato bellissimo, il più bello. Forse; però: Grazie. Solo e per sempre, grazie.

L’estate più bella, nell’immaginario e nell’incontentabile animo dei bipedi, purtroppo è sempre la successiva: la prossima sia, dunque, quella della definitiva affermazione dell’Umanità e, soprattutto, non sia sorella gemella del famigerato Godot. Anche in contumacia di coppe e di campioni.

(Rammentando: Spagna, 13 giugno – 11 luglio 1982: mandi, Vecio)

Effetti

Arenberg, basta la parola.

No, non si tratta del confetto dagli effetti purganti, ma della mitica foresta, temutissima da chi ama il ciclismo: certo, affrontarla potrebbe indurre gli stessi risultati lassativo emozionali delle pasticche, ma questa è davvero un’altra storia.

Non dimenticate a bordo o in sella i vostri effetti personali, soprattutto – sarebbe inopportuno – gli affetti. Vedete quello che potete fare in proposito, nel caso, attrezzatevi. Non lavate via quella polvere, non subito: forse non si percepisce, tra sobbalzi sulle pietre, sudore, cadute, botte terribili, escoriazioni e sangue, ma quelli sono pulviscoli di Storia, per una volta – illo tempore, c’era una volta una ruota – quella vera.

L’ottimo Gian Antonio Stella segnala che siamo tutti ambientalisti – tra l’altro, per qualcuno è assimilabile a un terribile insulto, ma nel nostro unico interesse dovremmo esserlo davvero tutti – con la tutela dell’ambiente altrui: ergo, se sussistono mire espansionistiche di voraci interessi privati, anche le doverose procedure previste dal codice in ossequio alla Costituzione, vengono serenamente omesse ignorate inapplicate. E’ il caso delle famigerate pale eoliche marine che stanno deturpando assieme alle colate di cemento la meravigliosa Sardegna: per questi progetti di sedicente sviluppo nessuna via nessuna vas (le valutazioni pre e post progettuali sugli eventuali impatti contro il ‘paesaggio’), mentre le antiche torri litiche difensive erette ai tempi del Barbarossa, con la loro struggente bellezza ci rivolgono sguardi di biasimo e pietà.

Caro Mr Wonka, voi insegnate al mondo che il cioccolato si tempera; non so se esista correlazione – non c’è correlazione, belavano in coro certe schiere di schiavi, un tempo – ma anche le sopraffine lame di Toledo, si temperano. Cioccolato rigorosamente fondente per stemperare le intemperanze e nel godimento del palato e della mente, ritrovare le giuste, opportune armonie collettive. Pare poi che sbocconcellare cioccolato fondente sia propizio e propedeutico per altre piacevoli attività, ma almeno per una volta non sconfiniamo in zona rossa: o anche sì. Meglio, chissà.

Tropico del Capricorno, Tropico del Cancro, ora anche chi vanta natali ai tropici comincia a preoccuparsi: il solito team di esperti – quanti ne abbiamo sparsi sul Pianeta – pare abbia individuato un altro buco nell’ozono, stavolta in corrispondenza dei Tropici, addirittura sette volte più ampio rispetto a quello sopra l’Antartide. Un altro gruppo di scienziati ha però criticato con veemenza questo studio, bollandolo come lavoro superficiale, zeppo di errori, anzi di buchi. Si resta allibiti, al cospetto dello spettacolo della scienza ufficiale, quella che dovrebbe aiutare l’Umanità ad alleviare grandi sofferenze, a individuare soluzioni alle grandi questioni che stiamo affrontando nel terzo millennio. I saggi antichi avrebbero sentenziato: peso el tacon del buso (o del sbrego). Purtroppo, non ci resta che piangere.

Tutto sommando – è il totale che fa la somma e anche la soma – meglio issarsi in spalla gli effetti e gli affetti essenziali e partire camminando, per un viaggio senza destinazione né conclusione certa, ma con il chiaro intento di andare a vedere cosa ci sia dietro ogni muro, oltre ogni ostacolo;

un viaggio fisico e onirico, un viaggio dentro il mondo e dentro i sogni, attraverso sentieri sinuosi, derive non lineari ma armoniche – meglio perdersi per trovarsi – con i tasca taccuini, penne, matite e una piccola armonica a bocca.

Binari (goccia)

Pagina dei problemi da abolire

Il nazionalismo rigurgita? Aboliamo le nazioni. Sembra un paradosso, un’utopia – sempre meglio di un’autopsia – sarebbe un magnifico programma politico e tra l’altro qualcuno ci aveva già pensato addirittura nella prima metà del secolo passato (forse, non per caso).

L’economia globale di regime neo liberista distrugge risorse, ambiente, cancella biodiversità, diritti, costituzioni? Ne stiamo ancora a discutere? Aboliamola, ora e per sempre, ammesso abbia senso l’espressione per sempre.

La vita insegna e diventa formativa quando fa male – lo sosteneva con convinzione e cognizione di causa Alda Merini – però potremmo almeno impegnarci a renderla più sensata, più razionale, più equa, riportandola nei giusti, bilanciati, ciclici binari della Natura.

In fondo, come sostiene il duro e puro degli Angeli del cabaret, questa economia per funzionare ha bisogno di gente infelice e disadattata; così la politica, purtroppo (un tempo nobile arte, ma forse quella era la boxe). Popoli sereni, gioiosi, in armonia con l’Universo non si farebbero mai imbrogliare, sovrastare, limitare, imprigionare dalle idiozie markettare, dell’una e dell’altra: economia e politica, diverse facce della stessa moneta scaduta e fuori corso (nonché tempo massimo), da decenni.

Acca due O: non è la sigla incomprensibile di uno di questi letali cellulari o tablet di generazioni perdute, né il codice identificativo del cyborg che spegnerà il tasto dell’alimentazione all’Umanità. Un tempo era la formula chimica – non alchemica – di un elemento non prezioso, fondamentale. Come ci rammentano gli eruditi acqua nasce dal connubio tra i punti cardinali nord sud, pensandoci manzonianamente potrei anche riuscire a trovare un senso di percorrenza e scorrimento alla faccenda. Peccato che nel frattempo nella nostra ansia nichilista camuffata da modernismo il Pianeta stia collassando per mani lorde nostre e l’acqua non la troveremo più dove eravamo abituati; forse, non la troveremo mai più punto.

Anche qualche illustre accademico di fama planetaria comincia a scriverlo (quindi, nessuno leggerà): confidiamo un po’ troppo sul leggendario potere salvifico delle crisi – crisi sinonimo di opportunità? dipende, soprattutto se i litiganti fanno le comari petulanti, mentre la casa comune è un rogo – tra mezzo secolo, potrebbero (sul serio, stavolta) non esserci più tracce parvenze vestigia della razza umana, vile e dannata.

Come frecce scoccate
da un ludico arciere
che non ha sempre
per mira un bersaglio, bensì
la bellezza d’una traiettoria,
sorvoliamo lo spazio degli anni.
Nella permanenza in volo
ci viene meno l’orientamento,
siamo oggetto di lanci sbagliati
e privi di verosimile obiettivo.
Dove, dove cadremo?
così senza onore.
(Valentino Zeichen)

Se ci salveremo, sarà solo in poetica polifonia:

in fretta, però, prima che evapori l’ultima goccia.

Darsi contegno

Pagina di una petizione: quando istituiremo una giornata mondiale dedicata alle giornate mondiali di qualcosa?

Ne abbiamo riservata una perfino agli asteroidi, compreso quello (politicamente corretto) che – forse – causò l’estinzione dell’avanzatissima civiltà dei Dinosauri.

Ci trastulliamo con queste miriadi di giornate – trastullarsi? baloccarsi in mezzo ai trulli? – per distrarre noi stessi (armi di distrazione di massa, sempre attuali) dalle questioni più serie più urgenti più cogenti; anche più bollenti, perché come sostiene qualche pseudo scienziato sarà anche vero che non esistono mutamenti climatici di natura antropica, però la febbre del Pianeta s’impenna e non accenna a contenersi, diminuire, darsi un contegno; convegno no, ne abbiamo visti a centinaia in questi biechi anni e sono sempre inutili raduni di incartapecoriti dirigenti, totalmente inadatti alla bisogna dell’ecologia e dei Popoli.

Caro Aldo, apri le porte, spalanca – spelonca? – i portoni della percezione: ne abbiamo bisogno, magari quelli delle coscienze e delle menti che al momento paiono chiusi a doppia mandata. Almeno spalanca le finestre, crea un mulinello, un ricambio d’ossigeno che favorisca le sinapsi.

I mari risalgono i letti dei fiumi per decine di chilometri e qualcuno esulta: l’acqua per la pasta è già salata, non solo, è anche già in ebollizione. I confini non naturali, geopolitici, uniscono o dividono? La risposta del saggio Maestro Magris è disarmante nella semplicità: di certo, separano. La matrice resta unica, ma l’uomo con arroganza e delirio di onnipotenza pretende di parcellizzare ciò che nasce comune, condiviso, universale.

Che belli i fiumi verdi, come l’Isonzo, davvero fiume più verde d’Europa, senza ipocrisie markettare: anche i fiumi uniscono, attraversano, collegano e si prestano a essere scavalcati da ponti, per connettere, ancora e sempre più.

Un tempo la tv non era un’arma di distrazione delle masse, né un sinistro medium concepito per indottrinare, ipnotizzare; era abitata, era costruita in modo umano e delicato, da persone e artisti che conservavano volti umani, capaci di regalare sogni emozioni sorrisi: capaci di irradiare ossigeno azzurro, aria di casa, aria di libertà. Sammy, dove sei?

Possiamo preoccuparci dello stato di stress delle obsolete, vecchie industrie occidentali, non pronte, sorprese, non attrezzate al necessario, non più procrastinabile processo di decarbonizzazione del Pianeta; dello stress della Terra, alla fine, pare importi poco a lorsignori, sempre gli stessi. Chissà se i politici e i manager leggono – sanno leggere, vero? – imparerebbero molto anche solo sfogliando l’ultimo report dell’Ipcc (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, ente al di sopra di ogni sospetto di conflitti d’interessi): una transizione equa ed efficace, si può fare e si deve perseguire, perché abbiamo già oggi tutti gli strumenti per realizzarla. Senza ulteriori scuse e/o pretesti per favorire le multinazionali fossilizzate.

Mentre perfino la Grecia, culla di tutti i saperi e di tutte le arti, tradisce il ritorno ad una economia ecologica (del resto, l’UE aveva provveduto anni fa a rimettere in riga la Terra degli Dei), gli occhi speranzosi di chi vorrebbe salvarla questa cara antica Terra, cercano Venezia – la magica esoterica metafisica Serenissima – che a settembre ospiterà l’incontro tra i movimenti internazionali per la decrescita (non pauperismo, a scanso di equivoci), in nome della sostenibilità e della salute; perché ormai troppo spesso – come scritto dal professor Paolo Cacciari nel saggio Ombre Verdi – il capitalismo green è un imbroglio:

l’ennesimo, né bello, né buono.

Bianco, quanti giorni a Natale?

Il mondo avvampa, aspettando qualcosa.

Aspettando Corot, dipingo. Non sono più così convinto che la frase, il titolo – nobiliare? ancora? ampiamente post litteram – la battuta fosse di codesto tenore; aspettando, mi chiedo ancora chi aspetta chi o quale evento, avvento.

Sono io in attesa? Da solo? Accompagnato dai genitori con libretto personale e giustificazione ufficiale? Insieme a mio fratello, ad un gruppo di amici? Un assembramento o, peggio, una radunata silenziosa?

Chi è che aspetta? Solo questo angoscioso dilemma, già mi spacca il capello, il cuoio capelluto, il cranio.

Corot, chi fu costui? Lui sì – Giovanni Battista – per mio massimo scuorno, sapeva destreggiarsi con la pittura: essere beato e supremo. Vedutista sarà Lei, con tutto il Suo Paesaggio.

Tela bianca, pagina bianca, paloma blanca; scherzi, non solo di un dottore nomato Destino.

Foto bianca, scatto anomalo senza razzismo implicito esplicitato dai simboli; impressionare l’Universo – quale, di grazia? – che potrebbe essere una luce bianca, un foglio ancora in bianco, un pensiero vergine intonso.

Esiste ancora oggi, nel Mondo Dopo, un’isola laggiù, i cui abitanti indigeni – solo loro, davvero padroni della loro isola – si chiamano tutti Arturo; massimo della democrazia, peccato non siano (possiamo dare loro torto o condannarli?) un fulgido modello di ospitalità: se qualche estraneo fa solo la mossa di avvicinarsi o tentare lo sbarco, finisce infilzato o nel pentolone di acqua bollente (un po’ di razzismo nella coda velenosa, è quasi salvifico nell’era del buonismo ipocrita).

Tra l’altro, fischiettando e balzando di (Porto) palo in frasca, oggi la nostra spettacolare satellitare Luna è nuova, il Pianeta quasi, siamo noi ad essere consunti vintage vagamente avariati, anche se ancora qualche ironico con stile è convinto che il Mondo resti bello proprio per questo; nella morsa incandescente dell’afa – per citare decennali reportage giornalistici di eccelsa originalissima qualità – aumenta la voglia di deambulare nottetempo, con il fervore delle tenebre; magari dalla mezzanotte in poi, in rispettabile compagnia di Streghe e Vampiri.

Un giorno qualcuno scriverà racconti su un uomo fuori dal tempo prigioniero dentro un oscuro maniero senza cancelli, né ponti levatoi, non il solito re nudo, ma un altero inafferrabile duca; un giorno qualcuno scriverà decine di racconti in teoria fantastici – erroneamente scambiati per fantasy – sulla questione delle questioni: le iene del profitto sono gente misera, senza fantasia perché l’oro nero (neo globale) o petra oleum è il terribile nulla onnivoro; ci costringeranno, quelle parole, a spogliarci del superfluo, a tornare al punto zero che non sarà il nastro riavvolto della cassetta, ma la nuova presa di coscienza: senza fratellanza e condivisione, senza comune senso di umanità siamo niente.

Magari genitori biologicamente, eppure aridi, incapaci di generare qualcosa d’altro, da noi, qualcosa di utile e virtuoso non solo per noi.

Tutto scompare, fagocitato da un puntino luminoso – rubare Bellezza, rubare Sublime, trafugare e poi darsi alla fuga con tre Van Gogh (nel senso di quadri), relativo e ininfluente il volgare valore commerciale – abbacinante (come negli schermi delle antiche, rudimentali tv). Al bianco Natale, comunque: – 180 giorni; tanto ormai si sa, dopo le Ferie d’Augusto, plana rapido San Nicola.

Le anime empatiche sanno connettersi, anche senza bisogno di rete (virtuale e/o di protezione), come rammenta il grande avventuriero letterato Marco Steiner, citando il poeta W. B. Yates:

Credo nella magia, nell’evocazione degli spiriti, anche se non so che cosa sono; credo nel potere di creare a occhi chiusi magiche illusioni nella mente e credo che i margini della mente siano mobili, che le menti possano fluire l’una nell’altra, così creando o svelando una mente o energia unica, poiché le nostre memorie sono parti dell’unica memoria della natura.

Rivelazioni (apocalissi), rilevazioni

Pagina delle menti, allo stato bradipo.

Lasciando, abbandonando una comunità – grande, piccola, media che sia – senza regole, senza limiti, allo stato brado, rischiamo di ottenere effetti perversi, lontani dallo stato brado dei puledri selvaggi, nelle vaste praterie di un qualche pianeta.

Focalizzarsi, chissà poi il perché e financo il per come, su Lepanto, battaglia navale antica di una certa rilevanza storica, e anche di una certa risonanza: misteri della psiche, sempre la stessa dell’incipit.

Mannaggia alla miseria, perdonerete l’impeto e l’assalto; la miseria, come la disdetta, ci vede benissimo, è davvero scientifica, colpisce sempre con estrema precisione i soliti poveracci. Del resto, è anche colpa loro, sono sempre in troppi. Afghanistan, terra petrosa, terra del cuore, martoriata e martire, sii, se mai potrai, santa e salda nella resistenza, ad ogni nuova tragedia.

Il canto libero di Elisa è sempre più verde – Elisa Toffoli – e il suo ritorno musicale al Futuro è un giusto, auspicabile ritorno alla Natura; la Musica può e deve essere sostenibile, nonché veicolo per una vita equa, giusta ed ecologica: l’idea della Cantautrice sembra ancora oggi un’utopia o una provocazione, eppure la follia spesso è solo il sinonimo della visione di realtà alternative, in attesa di realizzazione concreta; biglietto agevolato per concerti con migliaia di spettatori che pedalando, consentono di realizzare spettacoli dal vivo, a impatto ambientale zero. Come direbbero le nostre amate Nonne: gambe in spalla e via andare, anzi, pedalare. Chi comincia?

Le congiunzioni astrali sembrano favorevoli: a breve nella volta cosmica il raro allineamento di 5 pianeti – piano pentaplanetario? – visibili a occhio nudo, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, ma vivo e aperto: avevo frainteso o iper inteso la notizia, scambiando visibili con vivibili; ormai da anni, dentro l’armadio, oltre agli scheletri e ai fantasmi, conservo una valigia pronta, con una sola giacca pesante, anzi pensante, e poche rimembranze, quelle più leggere: pronto a salpare. Purtroppo, anche stavolta si tratta di una fugace – lei sì, fortunata – illusione. Mercurio, però, con l’immeritata fama di egocentrico presenzialista, uscirà finalmente dall’ombra della luce solare e sarà ammirabile in tutto il suo notevole splendore.

Pare che, nonostante tutte le avversità storiche, Mama Africa conservi il primato di continente più fiducioso e ottimista nei confronti del futuro, ma solo per chi riesce – attrezzi e bagagli – a trasferirsi verso altri lidi; non saprei se interpretarlo come segnale positivo; certo, chi è pronto con la sacca da viaggio in mano o sulle spalle si conferma un inguaribile ottimista, o, in alternativa, un coraggioso esploratore dell’universo delle possibilità.

Citando indegnamente, parafrasando un Maestro che non meriterebbe sfregi – Borges – i libri sono estensioni degli uomini sui generis (sui generis le estensioni, non gli uomini, famigerati alieni): non sono strumenti materiali, quali una pala, un coltello o un’arma, ma sono prolungamenti della memoria e dell’immaginazione, sono estensioni delle anime che si materializzano e consentono a chi cede alla loro fascinazione, di librarsi e volare, negli spazi immensi, infiniti.

Il 24 giugno non è il 24 maggio, parrebbe, distratti da afa e zanzare, razionamenti idrici e incipienti crisi alimentari, una data come un’altra, una data anonima: ecco, oggi, ma nel 1910, nacque (fu fondata) l’Anonima lombarda che detta così sembra un’associazione criminale dedita ai sequestri, invece era la fabbrica delle automobili Alfa (nessuna notizia di Omega). In seguito, conquistata nel cuore da Romeo, divenne una vera industria moderna – Alfa Romeo, elementare Watson – capace negli anni di produrre vetture leggendarie, per coloro che amano il genere; anche una carrozzeria ribattezzata disco volante. A proposito, chissà mai chi inventò la fortunata espressione: forse un alcolista anonimo (anche lui), forse uno scrittore fallito, bisognoso di inventarsi un espediente letterario da dime novel per sbarcare il lunario o sbarcare sulla Luna, forse un inguaribile sognatore.

Apocalisse, ormai sappiamo che il tuo nome significa rivelazione e in te possiamo trovare l’accurata descrizione di uno sbarco di Ufo, ma nelle ere pre cristiane: saranno stati anche degli extraterrestri, quei visitatori, ma pare fossero buone forchette, sempre affamati e pronti a rimpinzarsi a quattro palmenti (avevano forse quattro bocche ciascuno?): tanto è vero che nei millenni è rimasta celebre l’espressione magnare a Ufo.

Ingozzarsi come l’anonima – mica poi tanto – sequestri multinazionale o sovranazionale che da decenni ha sequestrato le nostre vite, le vite dei Popoli del Mondo: hanno capito – essi – che organizzandosi su larga scala, controllando risorse energetiche, risorse alimentari, risorse economico finanziarie industriali, risorse medico farmacologiche, avrebbero tenuto in pugno chiunque, molto più e molto meglio di governi autoritari, dittatoriali; senza nemmeno più necessità di rapire qualcuno. Anche perché come si sa, dopo tre giorni, l’ospite diventa troppo simile agli avanzi di un pasto ittico.

Un tempo trapassato, fummo i Criceti sulla Ruota, ma nell’ambito dell’ultima serata sanremese, da vivere in gruppo, divisi in squadre in competizione surreale e ironica per riuscire a indovinare i vincitori della kermesse canora; per evitare però di restare su certe ruote di solito ingranaggi dentro le gabbie della società globale estrattiva che soffoca l’umanità – nell’accezione più articolata e ampia – dovremmo dedicarci quanto prima, prima che anche il troppo tardi sia scaduto, agli Orti:

delle culture, delle colture.

Rivelazioni, rilevazioni, carotaggi malevoli che promettono scenari prossimi venturi da vaso di Pandora, aperto da Cassandra.

Meglio e con una certa sollecitudine, la nuova società degli Orti, prima che qualcuno ci obblighi – e non si tratta di una grottesca esagerazione – a risolvere la questione climatica oscurando “quell’accidente di Sole“.

Ombre lunghe (e Lautrec?)

Pagina delle ombre lunghe – mai allungare l’ombra (a nord est sanno perché), soprattutto quella di nero – e delle ragnatele, sofisticate architetture realizzate dagli Aracnidi, forse gli stessi (immaginari) che tormentavano Toulouse Lautrec durante i suoi deliri etilici.

Frequentare antiche case chiuse da decenni – nel senso di dismesse – abbandonate per incuria, consegnate al degrado: quanti rudinassi – tradotto: ruderi – si potrebbero salvare, con accurate amorevoli ristrutturazioni, donando nuova vita agli edifici e alle comunità.

Esorcizzare o celebrare, rogo delle fobie e delle vanità – anche delle vacuità, già che ci siamo – o estasi, nirvana delle nostre paure, limiti, insicurezze più recondite, inconfessabili? Sfruttare la Luna e le sue fasi, razionare, razionalizzare l’acqua sempre più preziosa e soprattutto i falò: per una volta, impegniamoci ad evitare una delle piaghe bibliche estive.

Migrare in fondo è vivere, la nostra natura è migrante: se non fossimo geneticamente progettati per i cambiamenti, non esisterebbero le farfalle. Partire, qualche strappo in salita, talvolta, non è solo fatalità, ma necessità – individuale e collettiva – viaggiare intorno al mondo, nell’universo, non a bordo della solita, consunta navicella siderale, ma con l’onnipresente fidata bicicletta velocipede, quella con le ruote lenticolari: lenti per osservare meglio i dettagli – la bellezza – ruote che contengano lenticchie e pan di via, per l’opportuno, necessario sostentamento.

Sulle sponde amatissime della Via Lattea, mulini a vento solare e tulipani bianchi, non per razzismo cosmico, ma per sintesi finale dei colori di ogni genere, specie, pianeta.

Satelliti naturali, a migliaia, satelliti non in senso latino – schiera ristretta di mercenari a protezione del o di un dominus, uno qualsiasi purché munifico – ci osservano dall’alto per una visione ampia e completa delle cose; ombre lunghe inevitabili durante il primo giorno d’Estate, solstizio, giorno più lungo dell’anno con luce solare persistente. Giornata torrida afosa, anche senza indurre sé stessi in tentazioni pericolose, pensando ad alcove lascive. Quanto sono belle le Donne d’estate, mentre sfrecciano allegre in sella alle loro biciclette, indossando freschi abiti con motivi floreali, floreali Loro, in primis?

Da etimo latino (ancora?), latineggiante con latinorum, il solstizio è il sol dell’avvenire che si ferma (speriamo di no), ma la data in cui avviene il fenomeno si muove, muta, non rimane mai la stessa.

Stonehenge o Pantheon? Per tacere dell’innominabile – in questa mesta temperie – Russia, tra balzi sopra i falò propiziatori e dispersione di petali su chiare fresche dolci acque fluviali.

Dimmi, opta con chi e dove trascorrerai questo percorso quotidiano e forse saprai chi sei:

magari solo per le prossime 24 ore, mai senza gli occhi stra allunati dei Bambini e degli Artisti come Lautrec, capaci, loro sì, di viaggiare, immaginare, creare altri Mondi;

forse migliori, almeno per un giorno:

quello più luminoso.

Voracità e Costanza

Pagina della voracità, da fare un baffo a Gargantua e Pantagruel, anche se devo ammettere che non li ho conosciuti, né di persona, né di panza.

Buchi neri immensi, sempre più voraci; l’ultimo, in ordine di individuazione – inversamente proporzionale all’estensione delle sue fauci e al terrore che diffonde – pare riesca a fagocitare un pianeta grande come la Terra ad ogni secondo. Esagerato, placati! Certi eccessi si pagano e non gioveranno poi il digestivo Antonetto, l’amaro Giuliani, né la citrosodina (per tacere sommesso, commosso dell’Idrolitina e dell’effervescente Brioschi). Altro che Sottosopra della serie Stranger Things, queste sono realtà al limite del normale e del paranormale; anche se, certi soggettoni terrestri, meriterebbero – di diritto – di trovare collocazione nella bacheca.

Cara Odette, ti stupisci per la quantità d’acqua passata sotto i ponti nell’ultimo bizzarro biennio, ma forse il tuo stupore è pari e contrario al mio: reminiscenze confuse con il presente o premonizioni distopiche? In realtà, purtroppo, l’antico detto popolare deve essere aggiornato alla mesta condizione attuale: sotto le arcate e dentro i letti fluviali, di acqua ne passa sempre meno, anzi, quasi non scorre più alcunché.

Il professor Tommaso Montanari ci rammenta che – caro Lei, anzi, caro Lev – Tolstoj (non sToltoj), già all’inizio del divorato 1900 scrisse un pamphlet anti bellicista contro il conflitto russo nipponico, divampato tra il 1904 e il 1905: prevalse, se così si può ancora ragionare, il Giappone, restarono però sul terreno intriso di sangue, più di 200.000 uomini. Ricredetevi! fu il monito dell’autore di Guerra e Pace; ri crederci? Ossia credere ancora? Siamo stati buggerati già troppe volte e infatti – dura iniqua lex – ci siamo ricaduti, più stolti, noi sì, di quei gonzi che dopo essersi ubriacati nelle peggiori bettole dei porti, si ritrovavano a loro insaputa imbarcati a forza come mozzi o marinai di bassa lega su navi mercantili, più o meno in regola, più o meno utilizzate per mercimoni di contrabbando o altro indicibili traffici. Quanti segreti hanno divorato i Sette Mari.

Matanoite (Pentitevi)! Per esibire un po’ di greco antico – il metano potrebbe essere un casus belli, ma nello specifico non c’entra – come in fondo era scritto nel Vangelo, quello di Luca (13,3): ricredersi per non perire – come si dovrebbe cambiare (dentro) per non morire tutti in un infausto olocausto nucleare – ravvedersi e mutare in modo radicale il nostro sguardo, i nostri pensieri, i nostri modelli di riferimento, le nostre pietre angolari, miliari, emiliane, per evitare che diventino pietre d’inciampo, definitivo.

Avresti mai immaginato, amico Pericle, che 25 secoli dopo la tua era, ci saremmo ritrovati, noi sedicenti uomini del sedicente futuro progredito, a ragionare sul tema: senza un esercito, non esiste politica? Nel mio microcosmo, nella mia limitata visione, ho creduto che proprio alla politica spettasse l’arduo ma esaltante compito di indicare il sentiero e formulare i progetti per una società dei Popoli equa, senza sfruttamento, con la messa al bando definitiva di armi, profitto unico dio e soprattutto geopolitica (ergo, guerra).

Ci siamo divorati tutto, senza criterio, senza vergogna: il banchetto più salato, più dispendioso della storia, non solo le risorse del pianeta, ci siamo divorati tra noi – il conte Ugolino, un dilettante allo sbaraglio, al confronto – a partire dai nostri cervelli, dalle nostre coscienze.

Bisognerebbe imparare da Nino, l’eremita raccontato dallo splendido documentario Lassù, di Bartolomeo Pampaloni: si è ritirato a vivere in solitudine in un faro abbandonato sopra Palermo; siamo più soli noi – monadi brulicanti imprigionate dentro città asfittiche e case letali, schiave del mercato iper nazionale – o è più solo lui, auto ribattezzatosi Isravele (da leggere al contrario, per capirne il senso), per riavvicinarsi al Mondo, senza filtri tecnologici, senza barriere convenzionali, sociali, grazie alla creazione di mosaici naturali e artistici?

Credere a Nino, uomo libero, ri credere a Lucrezio Caro (Caro Lucrezio…), poeta e letterato latino, quello del De Rerum Natura, per intenderci:

la goccia scava la roccia, non con la forza, ma con la costanza.

P.S. Brani suggeriti: Metanoite – Antypas ; Citrosodina – Sergio Caputo.