Durante un controllo di routine, gli uomini dell’Arma restano stupiti, leggendo sulla patente di guida le generalità dell’autista fermato:
– Paolo Rossi? Ah, Lei è il fratello?
Basterebbe citare la battuta del frizzante Attore monfalconese, omonimo del Hombre del Partido, per capire quanto questo ragazzo, questo uomo dallo sguardo limpido, dal sorriso e dai modi gentili, sia entrato nella nostra coscienza collettiva, nella nostra identità popolare.
PaoloRossi lo rammento, bene. Pura gioia, lampi di luce e di calore, di un Azzurro così intenso che mai più si sarebbero ripetuti uguali.
Luglio 1982, un’Estate un Mondo fa e non c’erano che loro, i Ragazzi del Vecio Bearzot e un paese che all’improvviso riscoprì la voglia, la fame atavica di gioia, comune, spontanea, senza più odj, senza più paura di avere paura o vergogna di ballare, cantare, urlare, di essere semplicemente felici.
Felici di essere vivi, di ritrovarsi madidi scomposti abbracciati a degli sconosciuti, cui però le emozioni e l’empatia di quell’istante immenso avevano davvero magicamente attribuito la patente umana di fratellanza.
Ero un bambino di 12 anni, ingenuo e ricettivo, ansioso di scoprire, di fare parte di questa festa ampia, incredibile, mai vista: non una celebrazione come Natale e Pasqua, non un dì di festa, come l’ultimo di Carnevale o il compleanno, un fatto molto più grande, difficile da descrivere, eppure bellissimo, unico.
Vestito solo con dei pantaloncini rossi da spiaggia, una maglietta bianca balneare e sulle spalle un sacchetto verde, in plastica, di quelli della spesa nei supermercati delle località di mare: quella era la bandiera, infantile, dell’epoca, quella era la ‘divisa’ di riconoscimento e affermazione: esisto anch’io, sono un bambino italiano e sono fratello di quei ragazzi là in Spagna, sì proprio quelli, i figli di Papà Enzo, friulano come me, mia Mamma, mio Nonno.
Il calcio o giuoco del pallone faceva parte del mistero della vita, una di quelle questioni, anche un pizzico crudeli, in quanto afferenti agli enigmi adulti, per un ragazzino che ancora tutto doveva vedere attraverso i suoi piccoli occhi curiosi, ancora tanto, troppo doveva imparare e comprendere, se possibile.
I maschi di famiglia, il Papà e lo Zio materno, materno per parentela e vocazione, erano sicuri appassionati, ne parlavano, ne discutevano con foga, seguivano le partite domenicali e le vicende connesse, anche ‘l’eroico’ ciclismo e l’atletica leggendaria facevano parte del novero degli interessi sportivi; per me bambino, il calcio era solo Sandro Mazzola, “il figliuolo del grande, povero, indimenticabile Valentino”, con i suoi baffetti che lo rendevano simpatico, perché identificabile e con la fantasia assimilabile a Zorro e D’Artagnan.
Fu però durante quella febbre azzurra collettiva, durante quella pandemia nazionale di patriottismo, in senso buono nobile e senza militarismi o violenza, che il virus calcistico si inoculò nel subconscio, nell’organismo impreparato del dodicenne che fui.
C’era questo PaoloRossi, di cui in giro, per le strade, a passeggio, durante le spese quotidiane, in edicola, in spiaggia, parlavano tutti, anche le Nonne, anche i vucumprà che puntuali ogni anno tornavano dal Marocco con nuove mercanzie e nuovi figli e raccontavano le loro storie e giocavano con noi a pallone durante tramonti commoventi; sospetto che perfino gli animali domestici sapessero dell’esistenza di PaoloRossi;
PaoloRossi era nei pensieri e nei concitati discorsi del mondo intero del me dodicenne.
“Non è più lui, è stanco, è fuori forma, non si è psicologicamente ripreso dalla squalifica, con lui la Nazionale gioca in dieci…”
– mi chiedevo cosa tutto questo volesse significare.
Fu durante un solitario – chissà dov’erano finite la Nonna e le Prozie – incandescente meriggio televisivo, sdraiato a pancia in giù sul tavolo del tinello balneare, cercando in modo poco ortodosso e assai improbabile frescura e ossigeno puro, che conobbi il misterioso PaoloRossi;
non una folgorazione, ma l’inizio di un amore, quello vero, quello che si espande nei capillari con dosata, inesorabile lentezza e poi occupa l’intera persona, senza possibilità di reazione, di opposizione.
PaoloRossi quel giorno mi colpì perché, certo più grande di me, aveva uno sguardo da bambino buono e sincero, anche se vagamente triste o preoccupato per qualche ragione, che per istinto, lo rese affine, degno di diventare mio Amico, quasi un altro mio fratello, dopo Andrea, naturalmente.
Cominciai a osservare la partita, focalizzando l’attenzione su questo magrolino pallido, con il numero 20 stampato sulla maglietta azzurra, su spalle che sembravano troppo fragili per sostenere tutto quel Cielo, tanto che avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse accasciarsi sull’erba del campo. Volevo verificare se tutte le parole, spesso cattive al limite della crudeltà che avevo ascoltato in quei giorni sul suo conto, fossero vere, avessero un riscontro nella realtà, anche se all’epoca i confini tra Reale Fantasia Sogno Immaginazione non erano mica così marcati, anzi.
Il realismo magico dei Fanciullini.
Era difficile individuarlo, sui teleschermi antichi, chissà se per oggettivi limiti dell’elettrodomestico, ancora in fase rudimentale, o per merito suo, di PaoloRossi, per qualche sua dote magica; scompariva, riappariva, poi quando c’era lui e tra i piedi o nelle vicinanze si materializzava anche quello strano oggetto sferico, con il nome di una danza argentina, si trasformava in una saetta, in una mangusta, tipo Rikki Tikki Tavi, quella della leggenda, veloce intelligente, così coraggiosa da affrontare e sconfiggere il terribile Cobra.
Pensai non fosse giusto, né corretto che durante la partita contro l’Argentina, si utilizzasse un pallone chiamato Tango che, nella mia testa, avrebbe certo favorito i sudamericani; ma PaoloRossi quel pomeriggio, caldissimo solitario travolgente, come solo una prova d’iniziazione può essere, non sembrava accusare né i sortilegi della sfera, né tutte le maldicenze delle settimane passate.
Era un ragazzo con l’argento vivo sulla pelle, agile, veloce; ogni suo movimento era sorprendente e sembrava creare scompiglio tra le fila degli avversari; non firmò nessuno dei due punti, realizzati dai suoi due amici Marco e Antonio, ma la sua presenza a me sembrò determinante, fondamentale, decisiva. Le sue improvvise corse in diagonale moltiplicavano i sentieri per i suoi compagni.
Centravanti era poi un’altra parola oscura, al pari della frase “meno male che abbiamo vinto, ma se un centravanti non segna mai… Con il Brasile, saranno dolori”.
Arrivò il fatidico appuntamento con la Storia delle Storie, con la Partita, la più esaltante e drammatica di sempre; io stavo giocando e nuotando nella piscina del residence, quando all’improvviso comparve mia madre, bionda giovane meravigliosa; concitata mi disse: “Esci, presto. Hanno già fatto goal!”.
Contrariato per il ritardo di quella chiamata, nonostante i precisi accordi e le istruzioni stabilite in precedenza, uscii in fretta dall’acqua troppo carica di cloro, imbronciato, anche perché temevo che il popolo dei Carioca avesse già dato il via all’irresistibile samba che pareva praticassero in ogni istante della loro vita, anche durante il sonno notturno.
Invece, mi trovai al cospetto di un’immagine nuova, la riproposizione di un fatto inaspettato e inusitato che era accaduto lì, o meglio allo stadio Sarrià di Barcellona, solo pochi istanti prima: quel ragazzo, PaoloRossi, correva da solo verso un imprecisato spicchio del campo, con le braccia al Cielo; questa volta aveva stampato in volto uno dei sorrisi più gioiosi e puri che mi sia poi mai capitato d’incontrare lungo il mio tragitto esistenziale.
Per la prima volta in quei torridi giorni, vidi il suo impareggiabile sorriso, non fu l’ultima;
lì cedetti definitivamente al sentimento, PaoloRossi era proprio mio Amico: guai a coloro che avessero di nuovo osato insultarlo.
Per gratitudine, come fosse un piccolo omaggio, dopo il 5 luglio 1982, inconsciamente decisi che, se per ventura, mi fosse capitato di giocare a calcio in una qualche squadra, avrei scelto, come numero di maglia, sempre e solo il fatidico 20.
Come ha scritto, in un mirabile pezzo, Emanuela Audisio:
Paolo, il ragazzo che senza strada d’asfalto, desiderava andare sulla Luna, ce l’ha regalata e con semplicità non ci hai mai chiesto qualcosa in cambio, o rinfacciato il dono.
Paolo Rossi, toscano di Prato, vicentino d’adozione, è come il Domani, un arco di Cielo Azzurro – quello di Paolo Conte – con bianche nuvole a formare il 20.
Il Domani, si sa, non muore, mai, come i Ragazzi e i Centravanti del Futuro.
Grazie Pablito: ahora y siempre, el Hombre del Partido.
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