Pagina dei Tiratori, però franchi.
Franchi Franco e Ingrassia Ciccio, artisti sottovalutati, non a caso, lontani dal sottobosco dei franchi tiratori, sottocategoria detestabile dei cecchini; impallinatori, a seconda di usi e costumi, convenienze, calcoli: di piccioni, poveri piccioni viaggiatori inconsapevoli – inconsapevoli del destino, non dell’identità da augelli – piccioni politici, ché uno pseudo San Sebastiano da trafiggere torna sempre utile; senza scomodare santità varje, né illustri, esagerati paragoni, torna buona la cambusa di allocchi da sacrificare, sull’altare delle trame e dei tramacci; un allocco supremo, così, si trova sempre e comunque.
Sono tiratori senza pudore, birboni immatricolati, spesso (sempre) mercenari, però franchi: adamantini – sinceri, chissà – nel loro sporco lavoro; qualcuno tanto lo deve fare e, come dicono i grandi saggi, fuori c’è la fila, ti rifiuti tu, avanti il prossimo.
Caro Martin (il pescatore?), saprai – da detti proverbiali popolari – che per un franco si rischia di perdere cappa, spada, strada e talvolta financo la ghirba.
Corsa, scalata, duello; si stenta a credere, non solo al paranormale, alla normale prassi, istituzionale o meno che sia; beato chi ha fede, chi non ce l’ha, resti scapolo, celibe, nubile, nobile. Una carica – speriamo non di tritolo – diventa nello sciatto, scarico, ordinario immaginario mediatico, una sorta di gara all’ultimo sangue, un contesa rustica rusticana, all’ultima spada coltello pugnale o letale intruglio venefico – da far impallidire Madonna Lucrezia, quella dei Borgia – invece della procedura elettorale parlamentare per designare il nuovo (ignorando la pietosa/impietosa anagrafe) inquilino del Quirinale (ex Vaticano): per 7 anni, se non di guai, vissuti spesso malvolentieri, in modo molto pericoloso.
Ché i perigli non sono opzionali: quando ti investono, ti investono; vallo a dire agli abitanti di Tonga.
Pagina della crisi esistenziale, esistenzialista dei tiratori; dalla culla, all’asilo, dalle elementari, all’università, non li nota mai nessuno, anche senza dono o maledizione dell’invisibilità; almeno una volta – semel in settennato, il seme giusto – ogni tanto, senza incomodare lutti papali (fascia nera su abito bianco) altrui, concediamo loro un momento di vanità, vanagloria, protagonismo; se poi il ruolo, sarà negativo, barra (codice a barra) pessimo, pazienza: purché il volgo ne parli. Una vita da pessimo: magari un giorno ti consegnano (a insindacabile giudizio di una commissione tra le infinite) non l’oscar, ma il tapino di latta, come ultimo dei cattivi, inetto, poco adatto, a diventare il migliore dei famigerati.
Passatempo – il tempo passa, anche fosse solo una dimensione – mio diletto, gigioneggiare divagare inneggiare con, alle divine Parole; aggettivo desueto, pare sia divenuto diletto – di letto? – e mentre scrivo, demodé retrò antiquato, anche desueto stesso. Sono desueto, per me stesso. Una benedizione, una consacrazione, diventare aggettivo: solo i veri artisti ci riescono dopo una vita intera di passione, di passioni, in bilico sul limitare tra il mondo dei sensi e quello sovrasensibile. Tre sono giunti – in sogno, come altrimenti? – a lenire le mie frustrazioni, a confortare i miei numerosi difetti; tre numero della perfezione: Van Gogh, Kurosawa, Fellini (con litografie celebrative di David Lynch).
Quando cammini, presta la tua attenzione, alle valvole rapide di sfogo o di ausilio alla forza anti dispersione di gas – anch’essi nobili, se va bene – o umori; importante non disperdere gli umori, in particolare, della pazza folla: non sempre le civiltà del momento hanno sotto mano una cloaca, massima.
Un tempo cancellato dalla memoria, anche piccole canzoni riuscivano a trasmettere con poetiche armonie grandi insegnamenti; in una, interpretata dalla signora Carla Bissi, si ammoniva con amara delicatezza:
più lontano vai, sempre meno conosci.
Lo stolto, imperturbabile, replicherebbe:
non è importante conoscere, ma è meglio sia importante chi conosco.