Vorrei vivere dentro una frizzante champagne comedy, una vita da rosa purpurea del Cairo (senza allusioni, né doppi sensi); in alternativa, in un road movie, con Gianni e Pinotto.
Scendere dallo schermo, perché poi, mi chiedo ancora oggi? Restare in bianco e nero, eleganti poetici frivoli; tra grand hotel, sontuosi ricevimenti mondani, telefoni bianchi – cos’altro? – innocenti vanità, varie e assortite; ogni tanto un charleston – Charlton Heston? – per favorire il processo digestivo, assimilatore, ma con moderazione.
Non escluderei ai priori, dai priori, a priori l’ipotesi di vivere una vita da Zelig, poi mentre medito con più attenzione, mi balena – viva la Balena, non necessariamente albina – in capa la sensazione che il mondo sia già affollato di troppi astuti emulatori di camaleonti. I Camaleonti celebravano l’eternità, ma per loro era più semplice, considerato che l’orologio della piazza del loro villaggio si era fermato, senza un vero perché.
Champagne comedy, affascinante invitante, sempre con giudizio, o almeno libero arbitrio, ché da coppa di champagne a champagne molotov è un attimo; meglio la versione caprese – nel senso di Peppiniello – o optate per la versione punk – nel senso di Enrico con i suoi rombanti, effervescenti compagni di anni gloriosi, ruggenti, campali?
Alessandro il Grande Bergonzoni esprime un desiderio sensato, comune a molte persone e a molti popoli: in cielo tra le frecce tricolori, uno stormo di colombe arcobaleno; chi ha tempo non lo attenda, rischia di trasformarsi in Godot: ma come disse una volta un saggio tassista di Bogotà a Maurizio Maggiani, hay mas tiempo que vida, c’è più tempo che vita. Ognuno opti.
Miguel son mi, ma anche e soprattutto il professor Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, torturato durante la dittatura militare, reo di essere un militante della resistenza guevarista. Ci informa e ci ammonisce sull’esilio di massa, esilio dell’intera umanità: l’epoca chiamata antropocene, epoca di passioni tristi, in realtà crolla da sola perché nasce dalla nostra stoltezza che ci ha portati a reputarci separati e superiori all’ecosistema, l’unico sistema di cui dovremmo preoccuparci e sentirci parte. Il nostro esilio quindi è stato più immaginario che fattuale, ma ha prodotto danni e distruzioni concreti. Si potrebbe aggiungere che il virus più mediatico sia (stato?) il virus perfetto per questo capitolo della storia, sedicente moderna: ci ha costretti a separare i nostri corpi dalla Natura, i nostri corpi dai corpi dei nostri simili, in una pseudo quotidianità nella quale domina e siamo dominati dalla virtualità algoritmica. Senza vero ritmo vitale. Ma il prepotente ritorno, la ineludibile riemersione della complessità ci immergerà di nuovo nella necessità di vivere secondo tempi che rispettino i tempi ciclici, alleati di una scienza che non ceda più alla tentazione di razionalismo colonizzatore, ma che sappia trarre ispirazione anche dalle arti, conciliando razionalità e credenza popolare. Le tentazioni di fuga in avanti – o quello che reputiamo avanti – ci allontanerebbero ancora una volta dalla vita, quella vera e naturale.
Torniamo umani, torniamo dall’esilio, il progresso inteso, anzi male inteso, solo come progresso tecnologico, annienta tutto: la nostra umanità e le fonti, a partire da quelle della vita.
Libiamo nei lieti calici – libagioni varje – di champagne, prosecco indigeno per i puristi:
mai più esilio, reale o immaginario da noi stessi, per inseguire falsi idoli; come ha scritto un altro grande professore, Montesano – non er Pomata, rispettabilissimo Enrico – ma Giuseppe: impariamo a diventare vivi, anche leggendo libri, unico strumento sovversivo che ancora abbiamo a disposizione, per gente che non si accontenta solo di una, solo di questa vita.
Santé!