Ho esaurito i dipinti di Hopper:
nei quali perdermi, a perdita d’occhio e soprattutto di mente.
Esaurito, anch’io.
Comincio – riparto, dal via – con quelli di Jack, Vettriano.
Capitan Jack, pittore avventuriero pirata, forse robot, libera scelta: opta.
Il passato è davvero una terra straniera, infida, spesso inospitale, piena di tranelli e trabocchetti.
Sempre più spesso mi trovo – ci provo, a (ri)trovarmi – dentro le sue visioni pittoriche, dentro una sua pennellata, dentro un suo paesaggio, dentro la sua immaginazione, in modo di certo improprio inopportuno inquietante.
Colpa di certe copertine di romanzi maledetti che utilizzano suoi dipinti, colpa di testa bacata: la mia?
Inconsapevole, io di essere nel quadro o viceversa, il quadro di ospitarmi, a sua insaputa; dell’autore e dell’opera stessa.
Atmosfere retrò, anni ’50, atmosfere peccaminose lascive ma sempre permeate da una sorta di aura indolente, come se dietro ogni trasgressione, ogni audace contravvenzione (elevata o conciliante?) al socialmente corretto, al moralmente accettabile, fosse compresa una giusta, imprescindibile dose di noia, reiterazione meccanica di copioni già consunti, già rappresentati, già vissuti, troppe volte, con un finale noto, virato di malinconia.
Un retro gusto amarognolo, come prendere coscienza che anche la migliore coscienza non ci condurrà ad un’assoluzione finale ecumenica, nel senso del consesso umano planetario;
mentre l’urlo di Giobbe scuote consapevolezze certezze identità, leggi divine, chiamando al confronto, al redde rationem perfino il Padre, l’Entità metafisica, il Creatore primo e ultimo: blasfemia, empietà, bestemmia?
Sono tra quei bagnanti eleganti sulla battigia al tramonto o forse all’alba, sono un granello di sabbia, un raggio di sole ormai esausto, la giacca leggera posata distrattamente sulla spalla di uno dei gentiluomini, il cappello a tesa larga di quella coppia di amici; sono dentro e contemporaneamente fuori, dalla scena immortalata, resa immortale, epica della mondanità umana, dentro e fuori dalla tavolozza, dentro e fuori dal catalogo – madamina, il catalogo è proprio questo – di Vettriano: la signora e il suo compagno danzano avvinghiati in riva al mare, sotto un cielo che promette e mantiene tempesta, mentre un gentile terzo uomo – erano tre, non mi ero ingannato- regge l’ombrello, tenta di ripararli, di proteggere quella coreutica intimità; io sono l’ombrello, se Giove scaglierà folgori, pazienza, esserci ne sarà valsa pena penna – virtuale – rischio mortale.
Sono la valigetta porta abiti, sono la sdraio con le bande verticali bianco rosse, sono il rasoio sulle gambe nude ed eleganti della signora che si prepara per la serata, romantica o di gala; di vela da diporto o trasgressione erotica.
Giochi spietati, occhi bendati, perché solo anima cuore sensi abbiano pieni poteri.
Prigioniero dei colori, vivere non solo (nel)la stessa scena all’infinito, ma l’esatto momento di quella scena, in eterno. Eternauta, aiutami Tu.
Mortali bipedi che nella magia pittorica del buon Jack, raggiungono l’immortalità, o la sua fugace illusione, di un istante.
Il sogno, come l’acqua, ci determina;
Acqua e Sogno, inarginabili, ingredienti primari essenziali, preponderanti della Vita, delle nostre piccole, rapide fragili vite.
Del nostro veloce volo – anche il Tuo vulcano ha voluto renderTi omaggio, unico Franco universale – resterà forse la memoria della nostra scia nel firmamento, forse appena un sospiro, dentro una pennellata di Vettriano.