TentennaMenti, Tintinnii

Un tintinnio attutito dalle nebbie, un’eco lontana, un clangore di catenacci arrugginiti.

C’è sempre qualche re che tentenna, indeciso a tutto tranne che al proprio tornaconto, mentre lungo le rive del fiume della vita i popoli si battono, lottano, muoiono.

Lungo le rive della Senna, non solo parigina, anche quella lodigiana, guardare meglio – o Guardamiglio – scrutare l’orizzonte, auspicando in una fioca luce che indichi o suggerisca la possibilità di un sentiero nuovo.

A piedi, o con immaginazione fertile e volante se non volatile, da San Colombano al Lambro a Piacenza, per emulare quel gaga ante litteram che elegante e profumato si avventurava sulla strada da Lodi a Milano, per occhieggiare la fatale e leggendaria bella Gigogin, avvolta in morbidi sbarazzini abiti tricolori (in caso d’insuccesso, annegare nel gin di scarsa qualità, erogato in taverne malfamate).

Inerpicarsi al tramonto sulla collina che ospita il castello, precipitando di colpo – come Alice nella tana dei conigli magici (o cadde nel cilindro di Mandrake?) – in una dimensione alternativa, tra Camelot e la Terra di Mezzo; giungere affannati alla cinta muraria e ad una varco arcuato, sigillato da un cancello, sorvegliato da guardiani incorruttibili e invisibili. Al di là delle siepi, degli alberi, dei cancelli c’è sempre un universo misterioso, potenzialmente colmo di pericoli, perché in realtà quel portale ci separa dai nostri lati oscuri, da tutti i nostri limiti. Al nostro buon libero arbitrio, la scelta, più o meno consapevole, di varcare, andare oltre, scoprire l’indicibile.

Sostare per trovare riposo e rifocillarsi alla Locanda Hermes: non autoreferenzialità, né pubblicità occulta, semplice informazione di servizio, pubblicità progresso divina. A Cremona e/o dintorni, terra densa di misteri e meraviglie.

Perdersi nel Bosco delle possibili fatalità o delle possibilità fatali, dopo aver ripreso il cammino – auspicabilmente, il proprio – lasciarsi irretire catturare guidare da una melodia sinfonica (Forever Young, ancora e sempre) suonata dalle fronde degli Alberi, da folletti e gnomi birboni, dagli Alphaville, però invecchiati, proprio come noi. Incappare in una sala cinematografica d’essai, magari Azzurro Scipioni, e assistere , nemmeno si trattasse di un sogno bizzarro, ad Alphaville di Godard, per provare sulla pelle l’effetto che fa una vera dittatura tecnocratica, o a una nottata dedicata a Ingmar Bergman e, male non fa mai, a Francois Truffaut.

Camminare ancora, arrivare sulle amate sponde del Sand Creek che dovrebbe essere in Colorado, ma come insegna Paolo Nespoli, se viaggi nello spazio e nel tempo, assisti in pochi minuti ad albe e tramonti senza soluzione di continuità, mentre il Pianeta gira incessantemente su se stesso, tu giri attorno a lui e anche la capa, in assenza di gravità, gira parecchio: ritrovarsi a deambulare sulle mani è un attimo. Raggiungere Marte si può, ma tra altri 15 anni, mentre decidiamo se sia più conveniente tentare di atterrare sul Rosso Pianeta o su qualche improbabile Super Terra, a centinaia, migliaia di anni luce da noi, curiamo le margherite che ormai sbocciano in inverno: in fondo, il sinistro cigolio del cosmovascello non è un problema, se emuliamo il capitano del Titanic, non è un problema l’eventuale accelerazione a 2 o anche 3G, mentre progettiamo un fattapposta di freno a mano che ci consenta di parcheggiare senza vomitare dentatura e scheletro, senza rischiare di annichilire la nostra debole carne. Fluttuare nell’Universo comporta perdita definitiva di calcio, meglio allenarsi con discipline sportive alternative.

Affanni inutili: la fine è nota ed sempre la stessa, senza girella, senza cornetto, apotropaico o da forno.

Sulla torre più alta, nella stanza segreta, nuovi, giovani amanti squarciano le tenebre, avvampando di passione nell’alcova lasciva;

la storia, le storie si perderanno nel sussurro del vento cosmico, ma come suggeriva il Poeta, altre Ophelia, con l’opportuno ausilio di Carbonio14 e Berillio10, sapranno trovarle coglierle condividerle ancora in tintinnii corrosi, mai corrosivi, sempre fecondi.

Ganimede

Pagina di o del Ganimede, audace incorreggibile impenitente.

Ganimede, chi fu costui? Il punto, caro Don Abbondiomelius abbondiare, quam defungere – è che oggi non sappiamo, in primis, chi sia stato tu. Non siamo aquile, poco ma certo, nemmeno parenti alla lontana del regale (magari, poco legale) rapace che ghermì e rapì il Ganimede di cui sopra. Comunque, sia maledetto il latinorum degli Azzeccagarbugli, di ogni epoca e materia.

Sarebbe meraviglioso, emozionante organizzare una riunione carbonara a Oxford, nello stesso antico pub nel quale pare si riunissero papà Tolkien e tutti i suoi figli letterari – aveva optato per il connubio con madamigella Fantasia, alle nozze, ancella fu madama Creatività – più qualche convitato illustre, di volta in volta; a seconda dell’evolversi degli eventi nella Terra di Mezzo.

Un mio lontano cugino, di origini calobrosaudite, si è detto stupito per l’esito del neurovision song contest – avete contestazioni da presentare, con test e teste motivati? rivolgetevi all’Aja(x) – qualunque cosa sia; in effetti, con 59 guerre in atto nel mondo, grazie alla medaglia d’oro assegnata a Torino, ne abbiamo risolta, brillantemente (sempre non si tratti di ‘oro matto’) una; per le altre 58, bisognerà inventare ex novo – non ex nodo, altrimenti conviene rivolgersi direttamente a Gordio – festival canori pacifisti. Amadeus, Carlo Conti, financo Pippo Baudo si sono dichiarati pronti a condurre, a oltranza.

Vaghiamo con lampade rigorosamente a petrolio (di nuovo, molto trendy, quasi un dandy delle fonti fossili), con lanternine gentilmente fornite dalle lucciole che un tempo rischiaravano le tenebre, ora hanno fondato una fabbrica globale di lumini: ci siamo messi in testa non solo pigne, ma la fissa idea pazza di cercare le ombre, le ambre, non solo i fantasmi, ma le impronte psichiche lasciate dalle grandi donne e dai grandi uomini; coloro che ci hanno preceduti su codesti sentieri, inventandoli dal nulla o quasi.

Anche leggere il linguaggio delle fronde arboree ispiratrici e le narrazioni contenute nei solchi dei potenti tronchi, potrebbe aiutarci a meditare, riflettere, organizzare un programma operativo per riedificare, ritemprare, anche rifondare ove serva – qui e ora, a spanne – l’umano, civile consesso.

Il Ganimede è anche un corpo astrale, il maggiore dei satelliti di Giove – per Bacco, che notizia – più grande perfino di Mercurio alato; potremmo implementare il metodo Ganimede: sette giorni per completare un’orbita attorno al nostro pianeta madre, ma soprattutto – ottimo spunto per edificare armonia tra le genti – consonanza (vocalanza?) orbitale con gli altri satelliti: Europa e Io, nel senso degli altri satelliti gioviali (sangiovesi? gioviani?), non il mio rapporto più o meno in crisi con il Vecchio, consunto Continente.

Dovremmo tenerci stretti quelli che raccontano storie, non i troppi infausti loschi masnadieri menzogneri, ma i veri narratori: gli inventori di avventure sul mare, non solo liquido geografico, ma quello della mente e dell’anima mundi, gli unici in grado di inventare e/o ampliare i miseri ristretti orizzonti terreni, quotidiani.

Non conta appurare se l’amore di/per Ganimede sia paradigma, simbolo di quello omoerotico, saffico, fluido: conta solo l’Amore altruista. Le cose più belle sulla nera nuda Terra, le più splendide sono coloro che amiamo, le azioni più giuste e pie quelle che donano gioia e cure ai nostri prossimi, preziosi oltre ogni futile ricchezza materiale.

Non so se Amore e Bellezza ci salveranno – in rigoroso ordine alfabetico, alfanumerico in caso di piano B – potremmo cominciare noi; a salvarli, ovunque, anche da noi stessi.

Come disse il Saggio:

non chiedere cosa possano fare per te Amore e Bellezza, ma cosa puoi fare tu per essi.

Edicole e carrelli

Girare il mondo, come si gira una pagina.

Sfogliare il mondo, come si sfoglia un libro d’arte, di fotografia o una semplice rivista – ah signora mia che tempi, quelli della rivista e dell’avanspettacolo.

Girare il mondo, capovolgerlo: cosa fatta, capo ha – diceva Nonna Erminia – ma qui siamo al cospetto di un’umanità senza capo né coda (quella ci è caduta molti anni fa, forse e non a tutti); soprattutto, popoli succubi di capi mai ignari, inadeguati, collusi, rei.

Attraversare il mondo a bordo di un carrello, come quelli della grande crisi argentina, quelli utilizzati durante le oceaniche manifestazioni di piazza – i cacerolazos – proteste sonore, con stoviglie pentole posate, perché una rivoluzione nasce anche dalla musica, soprattutto se sono le Donne a decidere, a guidare.

Rammenterete certo quella pellicola hollywoodiana, quella eterna storia di eterni adolescenti, rimasti rinchiusi dentro un supermercato: a raccontarsi, a baloccarsi con i carrelli per la spesa, sfrecciando tra le corsie sui pattini, ascoltando musica dai walkman, aspettando le luci di una nuova alba. Che li avrebbe condannati, da adulti, al mesto ruolo di clienti del mercato senza leggi, senza regole, senza dei.

In questo contorto Mondo Dopo, le luci all’orizzonte sono solo quelle dell’ipermercato planetario, nella speranza che le merci e i beni primari non scompaiano mai dagli scaffali sui quali sono nate per sporogenesi; le genti abitano ormai dentro gli edifici commerciali, sono le nuove platoniche caverne delle ombre morali, delle ombre illusorie, illusionistiche.

Edicole votive trasformate in bazar multifunzionali, anche per decidere – e versare poi relativo obolo – a quale santo votarsi, per quale santo votare, in attesa che gli eletti non necessariamente del settimo cielo (astenersi settimo cavalleria, squadrone di vili assassini) possano, soprattutto vogliano intercedere: per qualcuno, se non per tutti.

Una rosa nera si staglia chissà come sulla crepa di un muro di cinta, in lutto per la perdita dell’empatia e anche della simpatia tra le persone; quando qualcuno parla di appelli per umanizzare la guerra, diventa più semplice, automatico, credere nella Terra di Mezzo di Tolkien, nel Popolo degli Ent, magnifici Alberi senzienti, parlanti, migranti.

Cosa sarà mai questa crisi? Ci sorprenderebbe scoprire – siamo proprio un branco di beluga (magari!) – che in lingua greca, quella antica, il lemma indicava una scelta, una decisione, una fase decisiva nell’evoluzione di uno stato, patologico o meno. Dovremmo abbarbicarci all’etimologia e proprio in questi tempi attuare una autentica crisi in senso umanitario, una scelta finalmente, non solo di Sophie, anzi magari optare con sofia e saggezza, accomunate in un solo destino: il nostro, comunitario equo condiviso ragionato.

Del resto – dalla parte del resto del carlino – il connubio tra corpo e loquela è atavico, inscindibile, eterno non saprei: il corpo e il linguaggio camminano insieme, ma le vere energie per sostenere entrambi sono le parole.

Senza parole non abbiamo il potere di immaginare: né le nostre anime, né il mondo che faremo; speriamo prima.

I poi li abbiamo terminati, anche al supermercato globale.